lunedì 4 settembre 2023
Con i confini tracciati nel nuovo documento dei “dieci tratti” i cinesi hanno allargato, sulla carta, il territorio includendo aree di mare, isole contese, Taiwan e altre regioni. Arbitrati falliti
Un filippino addetto ai radar durante un'esercitazione nel Mar Cinese

Un filippino addetto ai radar durante un'esercitazione nel Mar Cinese - Ansa

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Tutt’altro che una “tigre di carta” di maoista memoria con riferimento agli Stati Uniti, la Cina continua giocare la sua partita strategica in Asia e non solo. Ancora una volta rimescolando le carte, in questo caso geografiche e ponendo ancora una volta davanti al dato di fatto Paesi che si vedono gradualmente limitare libertà di azione e utilizzo economico in aree marittime che storia, consuetudine e Diritto del mare hanno garantito loro.

Nei giorni scorsi Pechino ha posto nuovamente sul tappeto le sue pretese territoriali aggiornando la vecchia mappa nota come “dei nove tratti” (i segmenti che delimitano la sua estensione oltre le mappe universalmente riconosciute), con una dai “dieci tratti” che per il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, sarebbe stata una iniziativa routine nell’esercizio da parte cinese della sua sovranità. La mappa aggiornata consegnata dal ministero per le Risorse naturali al quotidiano filo-governativo in lingua inglese Global Times e pubblicata il 28 agosto include non soltanto porzioni significative del tratto di mare conteso tra Repubblica popolare cinese e una mezza dozzina di nazioni che su esso si affacciano, ma anche Taiwan, aree dello Stato nord-orientale indiano dell’Arunachal Pradesh e di quello occidentale del Ladakh (l’Aksai Chin).

Immediate le reazioni dei governi filippino, indiano e malaysiano a cui Pechino ha risposto invitando le parti a mantenersi obiettive e ad astenersi da speculare eccessivamente sulla questione. Di fatto, la sottolineatura che non ci sono spazi di dialogo sulle iniziative unilaterali e che la decisione della Corte permanente di arbitrato dell’Aja che il 12 luglio 2016 ha respinto le pretese cinesi non ha per essa alcun valore, come pure la Convenzione delle Nazioni Unite sulla Legge del mare del 1982.

Resta il fatto che ogni mossa nel senso di reiterare certi “diritti” e ancor più l’occupazione e la militarizzazione di isole e atolli, le prospezioni per individuare le risorse sottomarine e i limiti posti a transito e sorvolo delle aree occupate se non registrati e concessi accrescono le tensioni e innalzano il rischio di conflitti e hanno già avviato una spirale di riarmo e di presenza militare internazionale. Non a caso i colloqui bilaterali tra il presidente filippino Ferdinand Marcos Jr e l’omologo sudcoreano Yoon Suk Yeol, saranno prossimamente parte di una più vasta offensiva diplomatica di Manila alla luce delle mosse cinesi in modo crescenti aggressive.

La questione è di difficile gestione e soluzione. Manila sa, come Pechino, l’alleato americano con i Paesi che ne sostengono le ragioni nel Mar Cinese meridionale, che difficilmente il prossimo vertice dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico, Asean, nella capitale indonesiano Giacarta dal 5 al 7 settembre potrà produrre quel Codice di condotta nel Mar Cinese meridionale su cui le diplomazie lavorano da tempo e che potrebbe segnalare finalmente una posizione univoca dei dieci Paesi-membri diversamente inclini a contrastare gli interessi cinesi.

La controversia ha infiltrato anche la forma di spettacolo più diffusa. Già nel 2019 il lungometraggio a cartoni animati arrivato in Italia come “Il piccolo yeti” mostrava una mappa della Cina con i confini non riconosciuti internazionalmente; nelle ultime settimane è toccato a “Barbie” essere messa in quarantena da Filippine, Malaysia e Vietnam per la stessa ragione. Che si sia trattato di sviste o di operazioni preordinate non è dato sapere.



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