venerdì 24 settembre 2010
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Se sia stata davvero la crisi economica a produrre l’inversione di tendenza è difficile dirlo. È chiaro, però, che la svolta annunciata da Barack Obama all’Onu sul fronte degli aiuti americani al Sud del mondo è destinata a rivoluzionare l’ultradecennale approccio seguito fin qui dai Paesi donatori: fondi a pioggia alle varie agenzie delle Nazioni Unite impegnate sul terreno, poco o nessun controllo sui risultati dei progetti, scarsi effetti sulle economie locali. Un circolo vizioso criticato da molti esperti. L’economista Dambisa Moyo, autrice di «Dead Aid», fa notare ad esempio come «dopo sessant’anni l’Occidente si ritrova con un miliardo di dollari versato in Africa e non molti risultati positivi da poter mostrare». Difficile, in ogni caso, pensare di interrompere tutto d’un tratto il flusso degli aiuti. Situazioni già d’emergenza, in Africa e altrove, finirebbero per collassare. La soluzione delineata da Obama, e sostenuta tra gli altri dal cancelliere tedesco Angela Merkel, sottolinea però che l’aiuto, da solo, non è sviluppo. «Lo sviluppo – è stato il ragionamento del presidente Usa al summit sugli Obiettivi del Millennio conclusosi mercoledì – è aiutare altre nazioni a svilupparsi». Non indirizzando cioè tutti gli sforzi sulle donazioni a pioggia, ma sostenendo le capacità produttive interne dei Paesi del Sud del mondo. Come? Migliorando, ad esempio, le produzioni alimentari grazie a tecnologie efficienti e a basso impatto ambientale. O, ancora, non limitandosi a donare medicinali, ma sostenendo la creazione di migliori sistemi sanitari.È la mentalità stessa del sistema-aiuti, insomma, a dover essere ricalibrata. E l’Onu, che per decenni ha gestito la gran parte dei flussi di denaro, non può non sentirsi chiamata in causa dai capi di Stato che ora chiedono di vederci più chiaro nell’indirizzamento dei fondi e nei controlli delle spese. Dà da pensare la stessa elefantiaca struttura di agenzie Onu come la Fao, un «pachiderma» da 3.535 dipendenti con un budget di 929,8 milioni di dollari. La metà dei quali serve al mantenimento della struttura stessa. Anche rapporti indipendenti hanno mostrato in questi anni gli sprechi, la sovrapposizione degli interventi, la mancanza di coordinamento tra le sedi, la lentezza e il costo dei processi decisionali che gravano sull’agenzia che si occupa di alimentazione e agricoltura.Lo stesso Sud del mondo, però, è chiamato a fare la sua parte, soprattutto in un momento di crisi in cui le risorse sono limitate. Come ha detto il vicepremier britannico Nick Clegg, le nazioni in via di sviluppo «devono capire che non riceveranno assegni in bianco». È questa anche la posizione di Italia e Germania. Berlino ha messo l’accento sulla governance. «Uno sviluppo durevole, nonché progressi economici e sociali, non sono immaginabili senza un buon governo e il rispetto dei diritti umani», ha detto la Merkel. Perché è dai governi che dipende l’efficacia degli aiuti. Lo stesso Obama ha spiegato che gli Stati Uniti concentreranno i loro sforzi su Paesi come la Tanzania che promuovono la trasparenza delle istituzioni e il rispetto della legge e dei diritti umani, «perché democrazia e crescita economica vanno sempre di pari passo».Maggiori controlli, dunque, e aiuti più mirati. Una svolta che presuppone una reciproca responsabilità: gli aiuti devono essere trasparenti – oltre a essere versati con regolarità e senza ritardi – così come il modo in cui sono usati. Un circolo virtuoso che si spera possa dare frutti maggiori di quelli ottenuti finora nella lotta alla povertà e nel raggiungimento di quegli Obiettivi del Millennio che rischiano, altrimenti, di restare soltanto dei buoni propositi.
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