domenica 12 aprile 2020
Fabio Scotto, in America Latina per Cefa (Focsiv): «Sono i poveri a riempire le statistiche: per questo siano ancora qui». Alice Contini (Coopi) in Gambia: «Già iniziata la prevenzione»
Una sarta fabbrica mascherine artigianali alla periferia di Libreville in Gabon

Una sarta fabbrica mascherine artigianali alla periferia di Libreville in Gabon - Ansa

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Non chiamateli eroi, né buonisti, dicono. Ma lavoratori che hanno scelto di restare accanto ai più vulnerabili. «L’unica preoccupazione che ho è per i miei genitori in Veneto ma ho scelto di restare perché questo è il mio lavoro», dice con naturale franchezza Giovanni Zambon, 26 anni, raggiunto tramite WhatsApp nel suo appartamento ad Amman, in Giordania. Zambon è uno dei 3.000 italiani, secondo i dati dell’Associazione organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale, che ha scelto di restare all’estero e continuare il suo lavoro come cooperante per Caritas Giordania. Da più di un anno segue diversi progetti umanitari che supportano migliaia di siriani rifugiati in Giordania in questi 9 anni di conflitto.
Dall’inizio dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19, anche le organizzazioni non governative hanno dovuto adattarsi, modificando parte delle attività e dei progetti per far fronte alla crisi e alle misure introdotte dalle autorità locali. Dal 21 marzo, il governo giordano ha introdotto il coprifuoco, il distanziamento sociale e la quarantena. «Lavoriamo da casa e abbiamo sospeso molte attività ma restano attivi alcuni progetti per i più vulnerabili. Stiamo cercando di raggiungere 10.000 beneficiari con kit di cibo, alimenti e prodotti igienico-sanitari», spiega. Spostandoci virtualmente di 12.000 chilometri raggiungiamo tramite Skype Fabio Scotto, 54 anni, e un passato da cooperante nel Kosovo del post conflitto. Da oltre dieci anni vive in Ecuador, uno dei Paesi dell’America Latina più colpiti dal contagio. Lì, lavora come coordinatore di un progetto per il Cefa, il Comitato europeo per la formazione e l’agricoltura, aderente alla Focsiv, che mette in rete i piccoli contadini e i produttori andini.
Descrive così la drammatica situazione vissuta in queste settimane in Ecuador, dove decine di morti per Covid-19 sono stati abbandonati in strada: «Stiamo assistendo a tamponi fatti nelle case ai ricchi, mentre i poveri sono abbandonati senza avere accesso ai servizi di base e agli ospedali. Questo virus sta attuando una sorta di selezione innaturale, perché non fa altro che perpetuare le diseguaglianze che ci sono già. E Guayaquil ne è un esempio, perché è una delle città più diseguali dell’America Latina. I poveri e i diseguali del mondo sono quelli che continueranno ad alimentare le statistiche della pandemia e questa è una delle ragioni per cui abbiamo scelto di restare». Tra chi ha scelto di rimanere all’estero c’è anche Luca Cafagna, 35 anni, responsabile operativo di Un Ponte Per, una Ong che dal 2015 gestisce diversi centri di salute nel Nord Est della Siria insieme alla Mezzaluna Rossa curda. Quando lo raggiungiamo al telefono ha da poco attraversato il confine siriano e raggiunto l’Iraq.
«In un contesto di nove anni di guerra, in cui il sistema sanitario locale è di fatto collassato, non possiamo andarcene. Penso che il lavoro che facciamo come Ong che si occupa di salute sia fondamentale e debba essere mantenuto, anche a costo di rimanere lontani da casa», racconta. E poi, c’è chi, come Alice Contini, 30 anni, sarebbe dovuta rientrare in Italia a inizio marzo, alla fine della sua missione in Gambia per l’Ong Coopi. E invece ha scelto di restare. «Stiamo iniziando l’attività di prevenzione anti Covid-19, distribuiamo kit e supportiamo i cittadini di uno dei Paesi più poveri in Africa uscito da una dittatura. Qui mi sento utile».

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