mercoledì 29 ottobre 2008
A più di mezzo secolo dall’arresto di Rose Parks, che scatenò le proteste per i diritti civili, l’America potrebbe eleggere un presidente afroamericano. Finito il segregazionismo, soprattutto nel Sud differenze enormi restano sul maggiore livello di povertà rispetto ai bianchi.
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«Non glielo faranno fare il presidente», dice Rasheeda, 18 anni. Frequenta l'ultimo anno di liceo ad Huntsville, nord dell'Alabama. Sta visitando il museo per i diritti civili di Birmingham insieme a un'amica. Nelle stanze del palazzo che sorge al 520 della 20esima strada si ripercorre la storia del movimento per i diritti civili. Immagini forti: i bus divisi in due, i posti per i bianchi e quelli, sgangherati, per i neri; i bar rigorosamente vietati agli afroamericani. Ritagli dei giornali dell'epoca, la conta delle vittime e degli incidenti. Birmingham ribattezzata Bombingham per l'impressionante serie di bombe nei primi anni della rivolta. E poi disegni, fotogrammi, frasi che rimbombano nelle stanze. Come quella di George Wallace, governatore degli anni '60 in Alabama, già candidato segregazionista alla Casa Bianca nel 1968. «Segregazione ora, segregazione domani, segregazione sempre», disse in un folle comizio nel 1962. «Il 70 per cento dei nostri visitatori sono bianchi», dice la guida. «Ogni giorno la ferita del segregazionismo si chiude un poco di più. Ma da qui a dire che Obama alla Casa Bianca sarebbe accolto con gioia da molti bianchi, beh non esageriamo». «I nostri nonni hanno votato per la prima volta nel 1968, ed oggi 40 anni dopo Barack Obama vorrebbe arrivare alla Casa Bianca. Ma l'America non è pronta», aggiunge Rasheeda. «No, non glielo faranno fare il presidente». Intende i bianchi, quelli dell'establishment che una fetta consistente dell'elettorato nero considera a capo di un complotto ai danni delle minoranze, nera soprattutto. Jason è più diretto. Frequenta un master in gestione aziendale all'Alabama University. Ma i suoi sentimenti non sono diversi. «Do you think they're gonna elect him?». Pensi che lo faranno eleggere?, chiede. Lui la risposta la conosce. L'idea che in qualche modo, violento, truffaldino, ricorrendo a minacce e sotterfugi, le porte della Casa Bianca resteranno chiuse per Obama è un leit motiv ricorrente. Un ritornello che nella comunità nera è comune quanto un vecchio gospel. C'è la sensazione che l'America il 4 novembre tarperà le ali alle speranze e ricaccerà indietro il riscatto nero. Perché se Obama ha costruito la sua macchina elettorale e il suo messaggio andando oltre i confini della razza, del risentimento e della rabbia degli afroamericani verso l'altra America, i neri, dall'Alabama alle grandi metropoli «black» come Detroit, Filadelfia, Los Angeles e Chicago, lo considerano comunque l'uomo che metterà fine alle loro frustrazioni. «La corsa di Obama " dice ad Avvenire David Lanoue, preside della facoltà di scienze politiche all'Alabama University " è vista dagli afroamericani come un senso di affermazione: Obama capisce le necessità dei neri meglio di chiunque altro e per questo ha il potere di cambiare la politica americana». Ma la speranza fatica a sconfiggere quel senso di paura e di tradimento che persone come Rasheeda a Jason respirano. «Dicono che voteranno Obama, ma poi lo tradiranno nell'urna», dice Rasheeda. I politologi lo chiamano effetto-Bradley: nel 1982 il sindaco di Los Angeles, Tom Bradley era largamente favorito nei sondaggi nella corsa al governatorato della California. Perse di un soffio. Secondo uno studio di Harvard, però, nelle 133 diverse elezioni prese in esame fra il 1989 e il 2006, il cosiddetto effetto-Bradley è quasi svanito. Un altro sondaggio mostra che Obama è andato meglio delle attese nelle primarie. Tuttavia la storia degli afroamericani, nel Sud come altrove in America, è costellata di tradimenti, di passi avanti incompiuti. Nel giro di un decennio dopo la Guerra di secessione la classe dirigente sudista tornò al potere; quando la Corte suprema abrogò la secessione, Wallace e i suoi accoliti continuarono comunque a praticarla in forme differenti. I timori di vedere Obama fermarsi sull'uscio dello Studio Ovale per questo sono duri a morire. Malgrado Rasheeda e la sua amica giurino che la segregazione non c'è più, si vede ancora il ritmo diverso con cui bianchi e neri convivono. In Alabama, culla della lotta per i diritti civili, Stato dove Rose Parks, il primo dicembre del 1955 fu arrestata per non aver lasciato il suo posto sul bus a un bianco, i sobborghi di Birmingham e Montgomery, le città più grandi, ma anche di Tuscaloosa sono divisi in due. Tutto è separato. I bianchi sono benestanti, molti neri sono poveri. Nei quartieri dormitorio di Tuscaloosa l'impressione è che il mondo si sia fermato. Sporcizia, degrado, abbandono. Il 24% degli afroamericani, dicono le statistiche a livello nazionale, vive in miseria, contro appena l'8% dei bianchi. Qui i numeri, dice Lanoue, sono più alti. Parlare di pari opportunità e di chance identiche di fare carriera, emanciparsi, uscire dal ghetto è impossibile. «È la povertà, non il colore della pelle il punto discriminante. Peccato che spesso le cose coincidano». Tuttavia oggi l'Alabama è un posto diverso rispetto a 50 anni fa, precisa il professore, che però non se la sente di dichiarare «una faccenda vecchia» il razzismo. «Mentirei se dicessi che in America non c'è razzismo. Anzi, direi che la questione razziale oggi non è più solo del Sud, ma è diventata globale». Passi avanti però sono stati fatti sul piano politico. Bianchi e neri nel profondo Sud degli Stati Uniti hanno trovato punti di contatto. Superati gli anni '90, segnati dall'emergenza criminalità e dalla rivolta nel ghetto di Los Angeles (1992), oggi che l'attenzione si sposta sul welfare e sulla lotta alla povertà, le sintonie fra bianchi e neri sono in aumento. Molti afroamericani fra Alabama, Mississippi, Arkansas e Georgia ricoprono cariche pubbliche e sono voci importanti nel panorama politico locale e non solo. Una donna nera, Vivian Davis Figures, sfida il repubblicano Jeff Sessions per il Senato federale. Non ha chance alcuna. Non perché sia di colore, ovviamente, ma perché i democratici in quest'angolo di America sono ancora poco popolari. Ma è sul piano «personale», delle relazioni, che bianchi e neri continuano a vivere su binari diversi. Mondi diversi, spesso contigui, mai affini. «La chiamiamo la segregazione della domenica mattina alle 10» dice Lanoue. È il momento della preghiera, del ritrovo nella chiesa evangelica del proprio quartiere. Bianchi da una parte, neri dall'altra. Come 40 anni fa.
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