martedì 18 agosto 2015
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La Thailandia si interroga in queste ore sul significato della bomba di Ratchaprasong e di quelle vittime innocenti. Vittime di modalità di esecuzione della strage che risultano, per il Paese, eccezionali. La Thailandia da lungo tempo è attraversata da tensioni e divisioni che, in particolare nell’ultimo decennio e fino al colpo di stato del maggio 2014, hanno preso l’aspetto di un confronto duro, serrato, e a volte violento tra due gruppi: da un lato, i fautori di una democrazia sottoposta però a interessi anche personali e alla spregiudicatezza della famiglia Shinawatra i cui seguaci politici hanno vinto tutte le elezioni dell’ultimo ventennio per trovarsi però spesso messi fuori gioco da manovre giudiziarie e da interventi militari. Dall’altro lato della barricata, il gruppo di chi ritiene lo status quo, il controllo del Paese da parte di aristocrazia e di interessi economici appoggiati a settori delle forze armate l’unica possibilità di garantire stabilità e armonia. Fazioni, ideologie, interessi che si sono ritrovati più volte contrapposti sulle strade e nelle piazze di Bangkok paralizzandone l’area centrale per lunghi periodi e spesso bagnandole di sangue. Sangue dovuto i più delle volte all’azione di estremisti e alla reazione spesso convulsa, a volta coordinata di polizia e militari, ma anche all’azione di elementi in grado di passare indenni controlli e sbarramenti e di agire quasi indisturbati contro gli avversari dell’uno e dell’altro schieramento.  In questa situazione – in un Paese peraltro che conosce ampie aree di povertà e insoddisfazione – di uso coercitivo della violenza e incertezza del diritto, con un gran numero di armi da fuoco in circolazione e al centro di vasti interessi nazionali e transnazionali di ispirazione  criminale, il ricorso alle armi o agli esplosivi non è episodico. A questo si aggiunge la situazione nell’estremo meridione, dove dal 2004 si è registrata una recrudescenza dell’estremismo armato locale che si alimenta insieme di insofferenza verso i thai buddisti considerati colonizzatori e dell’affinità religiosa e culturale con la confinante Malaysia musulmana. Il conflitto a bassa intensità attivo da lungo tempo, ha portato negli ultimi 11 anni a almeno 6.000 morti, all’evacuazione di una parte dei thai buddisti e alla militarizzazione permanente con oltre 60mila effettivi di stanza a rotazione.  Infine, nonostante l’impegno della giunta e del governo, restano attive, anche se poco manifeste, forze ostili al potere ora vincente a Bangkok e opposte a un processo di democratizzazione e stabilizzazione del Paese suggerito dai militari o da esso approvato. Comunque sia, la duplice esplosione di ieri inserisce un elemento diverso e inquietante: quello della strage, e – presumibilmente – di una preparazione non solo in funzione di un gran numero di vittime, ma anche di precisi obiettivi che forse si delineeranno nei prossimi giorni. I precedenti immediati, sia l’ordigno lanciato il 7 marzo contro il Tribunale penale della capitale, sia quello che a inizio febbraio aveva provocato lievi danni e ferite a due persone presso una stazione della metropolitana sopraelevata non lontano dal luogo delle esplosioni di ieri, avevano chiaramente un significato simbolico o intimidatorio.  La metropoli thailandese vive soprattutto della sua capacità di tolleranza e di integrazione, ma è un obiettivo fin troppo facile per chi volesse portarvi una violenza dissennata. Questo nonostante il Paese viva da 15 mesi sotto il controllo militare e sia cogestito da una giunta in divisa e da un governo che di militari dentro o fuori il servizio attivo è in maggioranza composto. 
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