sabato 11 luglio 2009
La polizia disperde la manifestazione, in migliaia abbandonano Urumqi. La situazione nella capitale della regione autonoma rimane tesissima. Pechino intanto aggiorna il bilancio: le vittime sono 184. Il premier turco Erdogan: «È un genocidio».
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Moschee chiuse. Migliaia in fuga dalla città. Le forze paramilitari cinesi che presidiano ogni angolo, della capitale, ormai completamente «militarizzata». La «cappa» calata su Urumqi, la capitale dello Xinjiang, ieri è stata bucata solo da una manifestazione di alcune centinaia di uighuri riuniti davanti ad una moschea dopo le preghiere del venerdì, manifestazione subito dispersa dalla polizia. Ieri  mentre il primo ministro turco, Recep Tayyp Erdogan, ha definito quanto accade un «genocidio», le moschee sono rimaste chiuse, suscitando le proteste di una parte della popolazione, in un’indicazione che la situazione nella città rimane tesa tra le due comunità etniche che si sono scontrate nei giorni scorsi. Il bilancio ufficiale delle vittime è stato aggiornato dalle autorità di Pechino a 184 morti e un migliaio di feriti, colpiti negli scontri di domenica scorsa e scoppiati quando centinaia di uighuri, la minoranza etnica musulmana, si sono scontrati prima con la polizia poi con gli immigrati cinesi. Notizie non confermate parlano di almeno altre tre vittime nei giorni scorsi, un giovane cinese il cui cadavere sarebbe stato rinvenuto due giorni fa e due studenti uighuri che vengono picchiati a sangue da un gruppo di cinesi. I gruppi di esuli uighuri sostengono che le vittime sarebbero molte di più, forse seicento, e che gravi incidenti si sarebbero verificati in altre città della regione. Zhou Yongkang, il membro del massimo organo dirigente del Partito comunista cinese inviato dal presidente Hu Jintao a controllare di persona l’evolversi della crisi, ha visitato i feriti in alcuni ospedali e due università, tra cui quella islamica. Testimoni hanno riferito che migliaia di persone, in maggioranza cinesi, hanno lasciato nei giorni scorsi Urumqi nel timore di una nuova esplosione di violenza. Lo Xinjiang, ricca di risorse naturali della quale Urumqi è la capitale, si trova in una situazione geografica strategica, ai confini con Russia, Mongolia, Afghanistan, Pakistan, India e con le repubbliche musulmane dell’Asia centrale del Kazakhstan, Kyrgyzstan e Tajikistan. Dopo che responsabili del governo regionale hanno annunciato una raffica di condanne a morte per i responsabili, due giorni fa il presidente Hu Jintao ha affermato che la «stabilità» deve essere mantenuta ad ogni costo. Hu ha definito gli incidenti «un crimine organizzato dalle “tre forze” nemiche della Cina», cioè nella terminologia del Pcc, «l’estremismo, il secessionismo ed il terrorismo». Infine i media cinesi hanno annunciato che le famiglie delle vittime delle violenze riceveranno dal governo un risarcimento pari a 29mila dollari.
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