mercoledì 29 ottobre 2008
Il veterano ha ridotto a 4 punti il distacco, ma tra i repubblicani serpeggia lo scontro interno. Dare per scontato il suo trionfo potrebbe costare caro a Obama negli Stati in bilico: Ohio, Florida, Missouri e Nord Carolina. L’eroe del Vietnam sceglie il sarcasmo: «Sta già preparando le prossime mosse: aumentare le tasse, le spese e dichiarare la sconfitta in Iraq».
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La forbice dello scarto fra Barack Obama e John McCain si è chiusa ancora un po'. Ora la Zogby vede il democratico in vantaggio di soli 4 punti. Ma la maggior parte dei media americani ha deciso che per il repubblicano è troppo tardi: Obama sarà presidente. Con un pizzico di ironia, ma non troppa, un bisettimanale del New Mexico è arrivato persino a titolare, in prima pagina: «Obama ha vinto», voleva essere il primo a dare la notizia. Il candidato democratico è però il primo a buttare acqua sul fuoco degli entusiasmi precoci. Dare per scontato il suo trionfo potrebbe costargli caro se il suo esercito di volontari smetterà di bussare di porta in porta in Ohio, Florida, Nord Carolina e Missouri, gli Stati in bilico dove il suo margine di vantaggio è risicato o inesistente. Come dimenticare che John Kerry 4 anni fa rimase in vantaggio nei confronti di George W. Bush per buona parte del mese di ottobre, prima di perdere di due punti e mezzo? Le enormi differenze fra una rilevazione e l'altra " che fotografano dai 2 ai 15 punti di vantaggio per Obama " lasciano poi aperti dubbi sulla loro affidabilità e permettono a McCain di lasciarsi andare al sarcasmo: «I democratici stanno già preparando le celebrazioni per la vittoria " ha detto il senatore dell'Arizona " Obama ha già cominciato a prendere le misure delle tende nuove per la Casa Bianca. E a preparare con i leader democratici le prossime mosse: aumentare le tasse, aumentare le spese e dichiarare la sconfitta in Iraq». In questi giorni, però, il repubblicano deve prima di tutto convincere la sua stessa compagine che la sua campagna elettorale non è morta. Nel partito dell'elefantino, la cui disciplina interna è tradizionalmente «leggendaria», si respira infatti un'aria da esercito in disfatta in cui ognuno pensa prima di tutto a salvare la propria pelle. La prima ad aver messo il suo futuro davanti a quello dei compagni di battaglia è sicuramente Sarah Palin, che ha deciso di sganciarsi dalla linea dei consiglieri del suo capo per adottare una strategia personale, almeno negli ultimi giorni in cui gode ancora della ribalta nazionale. La governatrice dell'Alaska si è attirata le ire dello staff del senatore per essersi difesa dalle accuse di sperperare i soldi del partito con il famigerato guardaroba da 150mila dollari. «Non erano le dichiarazioni che avevamo mandato al suo aereo», ha ribattuto uno stratega di McCain, mentre un altro (con una mossa che appare puramente autolesionistica) l'ha accusata pubblicamente di comportarsi da «diva». Secondo il giornale online The Politico, l'aspirante vicepresidente ha portato alla luce le fratture esistenti all'interno dello staff di McCain e dello stesso partito repubblicano, dove aumenta il risentimento degli estimatori dell'ex governatore Mitt Romney, convinti che il suo nome al secondo posto del ticket avrebbe dato al partito molte più chance di vittoria. A meno di una settimana dal voto, insomma, nel partito che fu di Ronald Reagan è guerra di tutti contro tutti. «Ci sono molti modi di perdere una elezione presidenziale. John McCain sta perdendo in un modo che minaccia di far affondare l'intero partito repubblicano insieme a lui», ha riassunto sul Washington Post, David Frum, ex autore dei discorsi di Bush. Frum addirittura ha chiesto al partito di tagliare i fondi a McCain per concentrarsi sulla difesa dei seggi a rischio, in modo da non consegnare l'intero Congresso, oltre alla Casa Bianca, nelle mani dei democratici. Come se non bastasse, il partito conservatore deve fare i conti con la pesante condanna per corruzione di Ted Stevens, il più anziano senatore Usa e il primo membro in carica del Senato a finire sotto processo in oltre 20 anni. Stevens rappresenta l'Alaska, e rischia anche di macchiare per associazione la reputazione da "dura e pura" anti-establishment che la Palin si è costruita. La governatrice, infatti, pur dichiarando il verdetto «una pagina triste per l'Alaska» e dicendosi certa che Stevens «farà la cosa giusta», ha evitato di chiedere le dimissioni dell'84enne potente senatore repubblicano. Né lo ha pregato di ritirare la sua candidatura alle elezioni del prossimo martedì.
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