giovedì 9 maggio 2013
Il dipartimento di Giustizia: «Controllano i traffici illeciti. E s’insinuano nell’economia». Il gruppo de Los Zetas recluta fin dal 2010 gang locali per gestire lo spaccio. Mentre il cartello di Sinaloa è «nemico numero uno» a Chicago Gli Stati Uniti temono un travaso della violenza. (Lucia Capuzzi)
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Un cerchio: rosso, giallo, blu. Le tinte variano. Accanto, l’infografica spiega: ad ogni colore corrisponde l’influenza di un gruppo differente di gruppi di narcos, i cosiddetti cartelli: Sinaloa, Golfo, Los Zetas, Tijuana. Non è la mappa del Messico anche se i nomi potrebbero ingannare. La carta mostra il territorio a nord del Rio Bravo, cioè gli Stati Uniti. L’Onu aveva lanciato l’allerta fino dal 2010: «Le organizzazioni messicane dominano l’offerta di cocaina, eroina e metanfetamine negli Usa». Finora, però, si credeva che le “mafie latine” gestissero il business a distanza, tramite redditizie alleanze con la criminalità locale. Non che – come ha affermato il dipartimento di Giustizia di Washington – fossero ormai uscite dall’ex “giardino di casa” per insinuarsi stabilmente in oltre mille tra città e metropoli statunitensi. Una «sfida impegnativa» che «ci preoccupa», ha detto il capo dell’Agenzia anti-droga Usa, JAck Riley. Non si parla più esclusivamente delle città di frontiera. I narcos operano nei punti più impensati della nazione: dalla Georgia al Minnesota, fino all’Ohio e alla Pennsylvania, Indiana, Michigan, Kentucky. In pratica, è «un’invasione di Gringolandia», come scrivevano alcuni media messicani. Che preoccupa la Casa Bianca. Non a caso, la settimana scorsa il presidente Usa Barack Obama, da Città del Messico, ha parlato della necessità di cambiare strategia nella rotta ai narcos, dato l’evidente fallimento della «guerra» dichiarata dall’ex presidente Felipe Calderón. Un punto di vista condiviso anche dal neo-lider, Enrique Peña Nieto, che ha annunciato un’inversione di rotta. Finora – a parte “l’esortazione” ai media di evitare l’utilizzo di termini militari riferiti alla lotta anti-crimine –, il nuovo corso non è ancora iniziato. E sul terreno si continua a morire, al ritmo di mille morti al mese. Anche se la zona più calda si è spostata da ovest a est: Tamaulipas, Nuevo León, Coahuila, come evidenzia il reporter Diego Enrique Osorno nello studio-inchiesta “La guerra dei narcos”, appena pubblicato da La Nuova Frontiera.Qui opera il cartello de Los Zetas, tra i più attivi anche “oltre-confine”. Già l’anno scorso, l’Fbi aveva rivelato il reclutamento massiccio da parte di questo gruppo di gang statunitensi, in particolare Tango Blast e Mexican Mafia. I giovani sbandati vengono addestrati dai narcos e “affiliati” a tutti gli effetti alla banda. Anche la mafia di Sinaloa – considerata una vera e propria multinazionale del crimine, attiva in 56 Paesi – ha messo radici negli States. In particolare a Chicago. Tanto che, lo scorso febbraio, la commissione municipale anti-crimine ha dichiarato il leader della banda, Joaquín “El Chapo” Guzmán, come «nemico pubblico numero 1», lo stesso titolo del famigerato Al Capone. Ovunque arrivano, i narcos non si limitano a gestire i traffici illeciti, in primis quello di droga. Riciclano buona parte dei 20 miliardi di “fatturato” annuale nell’economia legale: in tempi di crisi non è difficile acquisire imprese e attività in difficoltà. L’obiettivo, del resto, dei cartelli messicani non è solo il narco-business ma l’infiltrazione nel territorio per ampliare la gamma dei traffici illeciti. Col sistema del “plata o plomo”: soldi o piombo. Finora, negli Usa si sono limitati ai primi. Gli oltre 100mila morti in sette anni sul suolo messicano, però, sono un incubo per Washigton. E pure per Bruxelles. Un mese fa, l’Europol ha avvertito: i narcos sono sbarcati anche nel continente.
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