mercoledì 12 dicembre 2012
Una agricoltura di pura e scarsa sussistenza, solo grazie agli aiuti internazionali si evitano gravi carestie. Ma nel Sud il progresso arriva con i missionari. (Marco Benedettelli)
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In un microscopico villaggio di nome Matewe, lontano un’ora di pick-up dall’ultima strada asfaltata, opera una comunità di suore benedettine della Divina Provvidenza. Per intuire come viveva l’umanità prima del salto tecnologico, bisogna specchiarsi nella pianura intorno alla loro missione, nel Malawi meridionale, dove si sente nitido il battito del cuore africano. Bisogna girare fra le case di mattoni cotti sul fuoco e di tetti di paglia. Bisogna spingersi nei mercati, ai crocicchi di strade fangose, dove si vendono pesce essiccato e frutta, semi, cumuli di scarpe sfondate. Bisogna osservare le donne che, schiena dritta e postura regale, avanzano con i secchi d’acqua appoggiati sulla testa, come tante Rebecche bibliche. E che poi giocano con i loro figli. E i bambini che, quando vedono un occidentale, escono dall’ombra sotto gli alberi e gridano ridendo "azungu!", la parola con cui ci si rivolge con rispetto, in lingua chichewa, ai bianchi. Le giornate sono scandite dalla parabola del sole. Ci si sveglia all’alba e si va a dormire poco dopo il tramonto. Nelle strade di terra rossa che solcano il paesaggio ci si imbatte in una umanità in cammino, spesso scalza. Uomini e donne che percorrono ogni giorno chilometri alla ricerca di un qualsiasi lavoro. Ovunque si rivolga lo sguardo nel paesaggio folgorato dal sole, emergono la miseria, l’arretratezza e tutte le contraddizioni del grande continente africano, qui ancora sprofondato in un sonno ancestrale, dove globalizzazione e modernità non sono arrivate. Il Malawi è una repubblica indipendente dal 1964. È soprattutto nel Sud del Paese che l’impero britannico aveva stabilito i suoi latifondi: quando la colonizzazione è finita, quella regione, predata e spremuta, si è ritrovata nella povertà cronica (dopo aver subito lo schiavismo nei secoli precedenti). Le suore benedettine della Divina Provvidenza operano dal 2007 nella regione di Zomba con attività molteplici. «Il villaggio di Matewe è sperduto, difficilmente raggiungibile. Non ci vuole venire nessuno. Proprio per questo, appena il vescovo di Zomba ci ha proposto la difficile missione, abbiamo accettato con raddoppiato entusiasmo», racconta la superiora, suor Sonia Mabel, uruguayana. Le religiose curano l’amministrazione di un asilo (fondato e gestito dalla attivissima Onlus italiana Amici Del Malawi). Grazie anche al contributo dell’imprenditore dell’abbigliamento Brunello Cucinelli, gestiscono la mensa di due istituti scolastici (una scuola elementare e media di 700 alunni nel villaggio di Matewe e un’altra di 650 in quello di Chimwankasi). Hanno  aperto, ancora con il sostegno di Cucinelli, un laboratorio per insegnare alle donne rudimenti di sartoria. Con le proprie risorse, hanno coordinato la costruzione di una nuova e più agibile carreggiata che collega il villaggio alla M1, l’unica importante arteria stradale che taglia il Malawi da nord a sud. Inoltre, grazie alle donazioni raccolte dal proprio Ordine, le missionarie stanno costruendo una scuola superiore per dare ai ragazzi del posto la possibilità di continuare a studiare. Non è facile portare avanti i lavori, fra mille difficoltà logistiche e la concezione africana del tempo, non lineare ma dilatata. Sparse in un arcipelago di villaggi intorno alla missione di Matewe vivono migliaia di persone. Il valore della vita è drammaticamente relativo. Si muore per una appendicite; paure e superstizioni arcaiche si frappongono ai tentativi di progredire. Soprattutto ora, alla fine della stagione arida, col sole ancora bollente e le scorte di cibo terminate. La pioggia non arriva e per arginare il pericolo di una nuova carestia, il World Food Programme ha già distribuito nei villaggio 700mila sacchi di mais, fagioli, soia. Chi è debole e denutrito non riesce a coltivare i piccoli campi intorno casa. L’85% della popolazione malawiana vive in zone rurali e l’agricoltura domestica è l’unico mezzo di sostentamento. Si va avanti con la nzima, una polenta di mais. O con il kassawa, un tubero bianco che viene consumato crudo. Per il resto ci si aiuta con il mango. Bambini e adulti lo raccolgono dopo avere percosso gli alberi dove il frutto cresce spontaneo. In Malawi l’aspettativa di vita è di 54 anni, e il 27% della popolazione è denutrita. L’industria, al di là delle piccole fabbriche intorno all’ex capitale Blantyre, è pressoché inesistente. Il carburante scarseggia. Un litro di benzina costa 1,50 euro (606 Kwacha, la moneta locale), oppure 3 euro al mercato nero. Prezzi stratosferici, tenuto conto che un manovale guadagna 12 euro al mese e un insegnante 37, e che tre quarti della popolazione vive ancora con meno di 1 euro al giorno. Ogni mattina davanti ai distributori delle città più grandi si formano caotiche file di automobilisti alla ricerca di un pieno, prima che le riserve si prosciughino. Il Paese vive di importazione ed esporta solo, per l’80%, tabacco, tè e zucchero. Il governo ha iniziato a distribuire fertilizzante nei villaggi, nel tentativo di incentivare nuove colture. Il deficit economico del Paese resta mostruoso, gli aiuti internazionali determinano il 40% del bilancio dello Stato. Nei luoghi isolati e lontani da tutto come Matewe, le famiglie mangiano solo una volta al giorno e la fame è cronica. Per i bambini, il pasto che le suore distribuiscono a scuola è il più importante della giornata. La loro attività è impostata sulla cooperazione con il governo e la diocesi della regione. Le suore gestiscono l’istituto scolastico di proprietà della confinante parrocchia di Lisanjala, coordinano gli insegnati mandati dallo Stato. Fanno attività pastorale, educativa. Promuovono progetti tirati su pezzo per pezzo e coltivano germogli di sviluppo nella comunità. La speranza di questo lemno di Africa passa dalla loro opera.
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