venerdì 31 agosto 2018
Già fallite le nuove misure economiche, i Paesi vicini «blindano» il Venezuela
(Ansa)

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«Buon giorno. Possiamo velocizzare la sua pratica». Il primo messaggio è stringato. Appena qualche parola e l’indicazione di telefono dove continuare la conversazione con maggiore discrezione. Seguono comunicazioni più dettagliate, con annesso tariffario, rigorosamente in dollari. Il sito, www.mercadolibre.com.ve, offre ogni genere di prodotto di lusso. Il cui prezzo è direttamente proporzionale al tempo di irreperibilità nei negozi reali. Una crema da donna o un profumo, dunque, possono arrivare a costare quasi la metà del salario minimo (1.800 bolivares sovrani, trenta dollari). Con un po’ di abilità, districandosi nei meandri delle varie categorie e sottocategorie, alla voce «servizi», si trova anche un “facilitatore”.

La più richiesta, al momento, delle figure spuntate nel Venezuela ai tempi dell’emergenza umanitaria. Le sue quotazioni hanno cominciato a salire negli ultimi mesi, per schizzare dal 18 agosto quando il Perù ha imposto l’obbligo del passaporto ai migranti in arrivo da Caracas. Il “facilitatore” è colui che – illegalmente è ovvio – fa da tramite tra il Servicio administrativo de identificación, migración y extranjería (Saime) e il cittadino, ansioso di lasciare il Paese, devastato dalla recessione. In teoria, per richiedere il documento è sufficiente fissare un appuntamento tramite il sito del Saime e versare l’equivalente di 20 centesimi di dollaro. In pratica, dato che la pagine non si apre, si blocca, o salta la corrente, ci vogliono mesi solo per ottenere l’incontro con il funzionario. Per portare a casa l’ambito documento possono passare anni. Dal 2016, inoltre, il Saime non emette passaporti nuovi ma si limita a rinnovare per un biennio quelli scaduti. Ufficialmente per mancanza di carta e altri mezzi.

Eppure, con il “facilitatore” tutto cambia. Sborsando settecento dollari, si può ottenere il documento nel giro di qualche settimana. Con 5.500 in un giorno e la validità viene prolungata a cinque anni. Il sistema è di dominio pubblico. Perfino il riluttante governo è dovuto intervenire. A luglio, il presidente Nicolás Maduro ha cacciato il direttore del Saime, Juan Carlos Dugarte, e vari funzionari sono stati arrestati con l’accusa di corruzione. I nuovi vertici, il 10 agosto, hanno annunciato di avere evaso 38mila delle 92mila richieste latenti. La mafia dei facilitatori, però, continua a prosperare. E i prezzi aumentano, di pari passo all’esodo. Un fenomeno quest’ultimo inedito: non era mai accaduto in America Latina. Non con tale intensità, in un arco così ridotto di tempo. Nemmeno nel convulso Novecento, insanguinato da dittature, rivoluzioni, guerre civili. Per questo, l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim) lo ha paragonato «alla crisi in atto nel Mediterraneo». In meno di quattro anni, almeno 2,3 milioni di persone – sette abitanti su cento – hanno abbandonato la nazione in macerie. I primi a partire – già durante l’era di Hugo Chávez – sono stati imprenditori e professionisti, che vedevano i loro agi minacciati dalla “rivoluzione bolivariana”. Ora, invece, al flusso, si sono sommati i poveri. Sono sempre di più i migranti provenienti dai “ranchos” – la versione venezuelana delle baraccopoli –, dove l’insicurezza e la penuria rendono la vita impossibile, perfino a chi è abituato alla scarsità. Anche il recente “maxi-piano economico” del governo si sta rivelando un ennesimo flop. La nuova moneta – il bolívar sovrano – è introvabile. Interminabili le file in banca per procurarsela. Invano. All’iperinflazione, dunque, si somma la carenza di valuta. Una sorta di “corralito” di fatto che acuisce il malessere della popolazione. Qualcuno scende in piazza.

Sempre di più, invece, se ne vanno. Il fiume in piena dei disperati si riversa sugli altri Paesi della regione. Solo i più fortunati hanno mezzi e contatti per trasferirsi in Europa. La migrazione venezuelana si spande come una “macchia d’olio” per il Continente. I primi interessati sono ovviamente i Paesi confinanti, in particolare Colombia e Brasile. Nazioni queste in cui la diseguaglianza sociale si somma a quella geografica. Tutto – risorse, servizi, capacità di intervento delle autorità – si concentra nelle principali metropoli. I migranti, però, arrivano in zone periferiche, in genere povere e abbandonate. Il loro “impatto”, dunque, è più forte. Ciò spiega perché un gigante come il Brasile abbia deciso di mobilitare 3.200 militari per “controllare” un flusso non enorme dal punto di vista numerico – 60mila persone da gennaio 2017 – ma concentrato nella regione amazzonica del Roraima. Dato che la politica di ricollocamento ufficiale è rimasta sulla carta, sempre più spesso, i migranti, via via, hanno deciso di proseguire il viaggio. Alle mete finora più ambite – Argentina e soprattutto Cile, a sud, Messico, a nord –, ora si aggiungono Ecuador, con 40mila arrivi, e Perù, con oltre 26mila. L’11 agosto ne sono entrati 5.100 in meno di 24 ore. Entrambi i Paesi – anche se poi Quito ha sospeso la misura – hanno risposto con un giro di vite: per entrare, ai venezuelani non basta più la carta di identità, bensì è necessario il passaporto. Chi era già in marcia s’è trovato imbottigliato sui passi andini, in attesa di trovare una via di accesso illegale e, spesso, letale. Mentre a Caracas, il mercato nero dei passaporti s’è ulteriormente dilatato. Un’ennesima dimostrazione che la risposta non può avvenire in ordine sparso. Per trovare una soluzione continentale a una questione che interessa l’intero spazio tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco, lunedì e martedì tredici nazioni latinoamericane si riuniranno a Quito, mentre l’Onu sta lavorando a un coordinamento regionale.


Grande assente dal dibattito finora è stato il governo venezuelano. Maduro ha sempre sottostimato il flusso migratorio, salvo fare un bizzarro appello, due giorni fa, ai connazionali affinché «tornassero in patria». Retorica a parte, però, vari analisti – come Carlos Malamud del-l’Istituto Elcano di Madrid e Joaquín Villalobos, del Saint Anthony Collage di Oxford –, parlano di un «uso politico del flusso» da parte di Caracas. I migranti sarebbero quindi una sorta di ultimo, cinico, appiglio, di un presidente in apnea per cercare di ottenere aiuti. E di rompere l’isolamento asfissiante. Non tanti, però, dentro e fuori il Continente, sono disposti a considerare Maduro un partner affidabile.

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