L'ayatollah Ali Khamenei, Guida Suprema dell'Iran - Ansa
La tensione è alle stelle fra Washington e Teheran. All’alba di ieri l’aviazione statunitense ha bombardato due località siriane nei pressi di Abu Kamal, al confine con l’Iraq. L’area ospita depositi di armi e di munizioni della forza al-Qods dei pasdaran ed è un feudo delle brigate Hezbollah che operano pure in Iraq. Dall’inizio della guerra in Palestina, sono stati almeno 16 gli attacchi contro le basi americane, tutti etero diretti dall’Iran. Il segretario alla Difesa Lloyd Austin è stato insolitamente fermo, ieri: «I nostri raid, di precisione, e di legittima difesa sono la prima risposta alla sequela di attacchi contro il nostro personale in Siria e in Iraq». Gli Usa non «vogliono la guerra, ma gli attacchi iraniani sono inaccettabili. Devono finire». Per ora la reazione americana è tardiva e sotto-proporzionata rispetto ai colpi ricevuti.
«La rappresaglia è inoltre distinta dal conflitto Israele-Hamas. Non abbiamo cambiato approccio a quella guerra», ha precisato Austin e sembra che gli strike americani non siano stati coordinati con lo stato maggiore israeliano. Seguono però di poco la miriade di bombardamenti ebraici contro gli aeroporti di Damasco e Aleppo, tesi a distruggere i carichi di armi in arrivo dall’Iran. Uno scenario che gli americani vorrebbero scongiurare, perché li porterebbe a un passo dalla guerra, con conseguenze immediate sul Libano, la Siria, l’Iraq e lo Yemen, tutti avamposti iraniani. Un drone yemenita è precipitato proprio ieri in Egitto, diretto contro Israele. Non è il primo attacco. La settimana scorsa un cacciatorpediniere americano ha intercettato quattro cruise e 19 droni sparati dagli Houthi contro Israele.
L’Iran ha molti consiglieri militari nel nord dello Yemen, specializzati proprio nel volo sinergico di missili e droni. Detterebbero loro gli ordini di attacco dei miliziani. Un anticipo di quello che potrebbe accadere se Teheran entrasse a muso duro nel conflitto palestinese. Gli ayatollah hanno capacità di guerra asimmetrica, eccellono nel campo clandestino, cibernetico e dell’invisibile. Ma il loro vero punto di forza sono i missili a raggio intermedio (1.500-2.000 km), credibili e minacciosi contro Israele e la ventina di basi americane sparse in Medioriente, anche se la difesa antibalistica ebraico-americana è la migliore del pianeta.
Ma crediamo davvero che l’Iran sia pronto a usare quelle armi? La verità è che Teheran non è in grado di reggere uno scontro frontale. Missili a parte, ha armi obsolete. L’aviazione e la marina sono sottodimensionate. Le difese antiaeree sono che lontane parenti di quelle israelo-americane, prive di radar e non ermetiche neppure a protezione dei siti sensibili. Due forze armate parallele convivono a fatica in Persia, con frizioni continue. I grattacapi interni e la contestazione antiregime fanno il paio con una popolazione ostile alla guerra e ai troppi rivoli di denaro che dall’Iran alimentano il jihad mediorientale.
È pertanto improbabile che l’Iran dichiari guerra a Israele e agli Usa, almeno a viso aperto. Siamo in una fase di reciproca deterrenza, con tutte le parti che fanno dichiarazioni bellicose ma dosano gli attacchi. Probabilmente Teheran continuerà ad agire nell’ombra, manovrando i tanti vassalli regionali che finanzia, arma e, forse, non controlla più. Una cosa è certa, la solidarietà iraniana con la causa palestinese ha un limite: la sopravvivenza del regime rivoluzionario persiano.