sabato 10 giugno 2023
Si alimenta la fronda e già due deputati seguono l'ex premier dimissionario da Westminster. L'obiettivo è minare la leadership alle urne per le suppletive
L'ex premier britannico Boris Johnson

L'ex premier britannico Boris Johnson - Reuters

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L’ex premier britannico, Boris Johnson, se n’è andato sbattendo la porta. Venerdì sera ha annunciato a sorpresa le sue dimissioni da deputato liberando uno scranno nell’ala destra dei Comuni occupato per quindici anni. È l’epilogo del cosiddetto “Partygate”, lo scandalo dei festini tenuti a Downing Street durante il lockdown, che gli era già costato l’incarico di primo ministro. È anche la fine del “johnsonismo” irriverente e scapigliato che ha segnato gli ultimi anni della politica britannica? Niente affatto. Il breve inciso della lettera con cui ha ufficializzato, «per adesso», la sua uscita di scena ha il sapore inequivocabile di un caveat. Tornerà.
La sua lunga missiva trasuda furia quasi trumpiana. L’ha scritta dopo aver ricevuto il rapporto finale della commissione parlamentare incaricata di verificare le bugie raccontate all’aula di Westminster quando, agli inizi dello scorso anno, fu chiamato a rispondere delle infrazioni avvenute al numero 10. Secondo i deputati-inquirenti l’ex premier ha mentito sapendo di mentire. Altro che: «Ho agito in buonafede», come ha più volte dichiarato. Circostanza che può essere punita con una lunga sospensione se non addirittura con un voto di revoca del seggio. La mossa è suonata a Johnson come l’atto finale di una caccia alle streghe orientata da un «vergognoso pregiudizio» nei suoi confronti. Ha bollato la commissione incaricata del procedimento come una “Kangaroo court”, un tribunale illegale che, come un canguro, procede a balzi saltando intenzionalmente prove a favore dell’imputato. Ha accusato Sue Gray, l’alto funzionario che ha condotto le indagini amministrative sullo scandalo, di collusione con i laburisti. Ha infine puntato il dito contro alcuni dei suoi colleghi conservatori disposti a «fare qualsiasi cosa», anche giocare di sponda con l’opposizione, «pur di rimuoverlo dal Parlamento». Manovra ordita, ha precisato, «per vendicarsi della Brexit e ribaltare il risultato del referendum del 2016».
Tra le rime dello sfogo aleggia un attacco, neppure troppo velato, all’attuale premier Rishi Sunak, l’uomo che durante la pandemia era il suo Cancelliere dello Scacchiere, inquilino dello stesso edificio a Downing Street, immortalato insieme a Johnson in un festino “irregolare”. È lui il regista della spallata che, a luglio scorso, lo ha fatto irrimediabilmente cadere dal trono a cui era asceso con il plebiscitario consenso riscosso alle politiche del 2019. C’è chi, tra gli addetti ai lavori, interpreta l’ultimo coup de théâtre dell’anticonformista Johnson non come una resa ma come una sfida lanciata a Sunak. Il seggio a cui rinuncia, quello di Uxbridge e South Ruislip, verrà riassegnato con elezioni suppletive. Il rischio che possa passare ai laburisti è più che concreto. A dirlo sono i sondaggi che da mesi penalizzano i conservatori. Se altri deputati seguissero le orme di Johnson, come hanno già fatto l’ex ministro Nadine Dorries e Nigel Adams, per i Tory sarebbe un pasticcio enorme. Un carico da novanta a schiacciare la fragile leadership di un “tecnocrate”, come viene definito Sunak in certi ambienti, appena tornato da un viaggio Oltreoceano (quasi) a mani vuote. Lunedì, la Camera pubblicherà l’ultimo (si spera) dossier sul Partygate. La saga ha adesso i connotati di una tragedia politica.

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