martedì 7 luglio 2009
Come per l’occupazione del Tibet si punta alla colonizzazione della regione con la politica delle immigrazioni
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Scoppia il Tibet? Per Pechino non c’è che un responsabile: il Dalai Lama che, spalleggiato dalla sua “cricca”, tira le fila della rivolta dal­l’estero. Scoppia lo Xinjiang? Pechino grida al complotto. Pronto anche il “mandante”: Rebiya Ka­deer, presidente del Con­gresso mondiale degli ui­ghuri. La “mente” dei di­sordini è insomma sempre all’estero, è sempre un fuo­riuscito, qualcuno che si è venduto, che collabora con le potenze straniere. L’accusa, nell’uno e nell’altro ca­so, è uguale: volersi separare dalla madre patria, strappare un legame inviolabile per Pechino. Come nel Tibet, l’origine degli scontri che hanno insanguinato lo Xinjiang – regione desertica e montuosa ma ricca di risorse naturali nel nordovest della Cina – saranno ac­compagnate dalle opposte versioni, una che attribui­sce agli uighuri la miccia della rivolta, l’altra alla re­pressione cinese. Due sto­rie analoghe, quelle del Ti­bet e dello Xinjiang. Cam­bia la composizione etni­ca – gli uighuri, turcofoni e di religione musulmana sono gli abitanti originari della regione che essi chiamano, ostinatamente, Turkestan dell’est – ma simile la strategia usata da Pechino. La massiccia “ invasione” dei ci­nesi han. L’annacquamento delle identità culturali – e della loro irriducibilità – at­traverso una vera e propria colonizzazio­ne. Gli uighuri oggi sono solo il 44 per cen­to dei 20 milioni di abitanti della regione. All’immigrazione, si accompagna la di­struzione o l’alterazione dei luoghi sim­bolici, attorno ai quali si aggruma l’iden­tità di un gruppo. È quello che sta acca­dendo del vecchio bazar di Kashgar, la ca­pitale della cultura uighura. Non una città qualsiasi: una volta una delle oasi più im­portanti sulla Via della Seta, essa è anche la porta della Cina verso l’Asia centrale e meridionale. A pochi chilometri da Kash­gar, sulle montagne del Pamir, si incon­trano infatti i confini con Kazakhstan, Kir­ghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Paki­stan ed India. Ebbene le centomila fami­glie che vivevano nel bazar, un labirinto di vicoli e di vecchie costruzioni tradiziona­li, sono state trasferite in nuove costru­zioni alla periferia della città. Il bazar sarà raso al suolo. Una decisione definita « un affronto alla cultura uighura ed un tenta­tivo di assimilazione degli uighuri » dalla dissidente Rebiya Kadeer. La distruzione del bazar di Kashgar è il simbolo della «rimozione della cultura» del gruppo musulmano
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