sabato 26 febbraio 2011
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Lo spauracchio paventato, circa la tra­sformazione della Libia in una base di al-Qaeda o, quantomeno, in uno Stato i­slamico maldisposto nei confronti dell’Euro­pa non sembra avere riscontri concreti. L’islam politico libico, nelle sue diverse sfac­cettature, non racchiude affatto elementi più pericolosi di quelli presenti nell’islam egizia­no o tunisino. La versione “moderata”, anche qui rappresentata dai Fratelli musulmani, ha vissuto un’iniziale tolleranza negli anni Cin­quanta e Sessanta allorché il movimento su­biva una vera persecuzione in Egitto. A parti­re dal 1972, i Fratelli hanno dovuto entrare in clandestinità, trasformata nel 1987 in una du­ra repressione in seguito a un fallito colpo di stato contro il regime. Nel 1998, le autorità libiche hanno arrestato in luoghi segreti 152 simpatizzanti della confra­ternita, in maggior parte docenti e studenti u­niversitari, condannandoli solo quattro anni dopo a pene severe: due condanne a morte, 73 ergastoli, 11 pene detentive a 10 anni, e 66 scarcerazioni. I prigionieri dei Fratelli, come quelli del Gruppo islamico combattente (Lifg), l’ala “militante” dell’islam libico, non benefi­ciano così della “clemenza” delle autorità nei confronti dei prigionieri politici seguita all’e­lezione della Libia, nel 2003, a presidente del­la Commissione Onu per i diritti dell’uomo. Tuttavia, furono avviati dei negoziati nel feb­braio 2004 con il regime circa l’introduzione di alcune riforme tanto che l’Indipendent lon­dinese affermava solo dopo un mese che in Li­bia i Fratelli sono «riconosciuti per le loro cam­pagne pacifiche e non avrebbero mai usato la violenza o perorato il suo uso».Più sfuggente appare (ma forse volutamente) la collocazione del Lifg all’interno della galas­sia islamista. Il gruppo, fondato nel 1991, vie­ne erroneamente assimilato a un ramo di al-Qaeda in Libia. L’equivoco, come asserisce l’e­sperto di movimenti islamici Camille Tawil, nasce dalla «fusione» annunciata nel novem­bre 2007 congiuntamente da Ayman al-Zawahiri e da Abu al-Layth al-Libi, capo di un piccolo gruppo di libici rimasti bloccati dal 2001 nel Waziristan (dove verrà poi ucciso da un Predator americano). Nessuno o quasi, al­lora, ha ricordato che la leadership ufficiale del Lifg aveva condannato gli attentati terro­ristici dell’11 settembre, aveva sempre preso le distanze – nonostante la comune lotta in Afghanistan – dalle idee di Ossama Benladen proclamando la sua adesione al pensiero dei taleban e di Abdallah Azzam, uno sceicco mol­to critico nei con­fronti di Benladen morto in circo­stanze misteriose nel 2001. Nessuno o quasi ha ricordato che i libici andati a combattere in Algeria hanno sconfessato gli attacchi a danno dei civili condotti dai salafi­ti del Gspc e che sono stati perciò trucidati dai propri «fratelli».L’annuncio di Zawahiri, af­ferma Numan Ben Uthman, un ex dirigente del gruppo che ora collabora con un centro londinese contro l’estremismo religioso, ave­va un unico scopo: quello di far abortire i ne­goziati da poco avviati tra le autorità libiche, mediante Seif al-Islam Gheddafi, e i leader del gruppo, allora tutti in carcere: Abu Abdallah al-Sadeq, l’emiro del gruppo arrestato in Tailan­dia; il suo vice Khalid al-Sherif, prima rin­chiuso dagli americani nel campo afghano di Bagram poi consegnato alla Libia; e il re­sponsabile degli affari religiosi Abu Mundhir al-Saidi, arrestato nel 2004 a Hong Kong e con­segnato a Tripoli. Per fortuna, i negoziati proseguirono e sfo­ciarono in una «revisione del concetto di jihad e di governo» in cui il Lifg abbandonava la lot­ta armata, mentre il governo ha disposto la li­berazione, in diverse ondate nel 2009 e 2010, di decine di prigionieri del gruppo. Il jihad li­bico aveva così cessato di esistere.
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