martedì 1 dicembre 2009
Dallo studio annuale dell'Onu emergono timidi segnali incoraggianti, come la riduzione del 17% nel numero dei casi rispetto al 2001. Sono 33,4 milioni i sieropositivi: in aumento gli «infetti inconsapevoli». Nei Paesi poveri il 58% non ha accesso ai medicinali.
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Gli effetti positivi della lotta planetaria all’Aids diventano sempre più percepibili, ma l’epi­demia resta capace di punire ogni distrazio­ne dei sistemi sanitari nazionali e delle popolazioni. È il messaggio che Unaids lancerà oggi nel quadro della Giornata mondiale della lotta alla malattia, ba­sandosi sugli ultimi dati epidemiologici. Secondo l’a­genzia dell’Onu che coordina il lavoro di diversi or­ganismi internazionali, vivono nel mondo circa 33,4 milioni di sieropositivi. L’anno scorso, il virus ha ucciso 2 milioni di persone, mentre i contagi sono stati circa 2,7 milioni: 7.400 casi al giorno, fra cui 1.200 bambini. Cifre sostanzialmen­te simili a quelle del 2007, anche se pare più allarmante che mai il feno­meno dei malati inconsapevoli. Ciò è vero pure nei Paesi industrializzati come l’Italia, dove non a caso le au­torità sanitarie concentrano que­st’anno la propria campagna sul­l’importanza di effettuare test so­prattutto fra i 30 e i 40 anni. Nel no­stro Paese, i sieropositivi stimati so­no almeno 170 mila. Fra loro, circa 22 mila presenta­no tutti i sintomi della malattia. È confrontando le diverse 'fotografie' annuali dell’e­pidemia che emergono timidi segnali incoraggianti. Ri­spetto al 2001, la propagazione dell’Hiv ha rallentato la sua corsa persino in Africa, dove in 8 anni il calo del nu­mero dei nuovi casi è stato del 15% (con 400mila nuo­ve infezioni l’anno scorso). Meglio dunque che nell’A­sia meridionale, dove i nuovi casi annuali sono dimi­nuiti di circa il 10% rispetto sempre al 2001. Nell’Asia sud-orientale, il calo è stato invece del 25%, dunque più del 17% constatato a livello mondiale. Secondo Unaids, inoltre, è sintomatico che il ritmo d’avanzamento paia stabilizzarsi nell’Europa orientale, dove fino a qualche anno fa la progressione pareva inarrestabile. L’effetto combinato delle triterapie e della preven­zione ha abbassato negli ultimi 5 anni di circa il 10% il numero dei morti, con una stima generale di 2,9 mi­lioni di vite salvate dal 1996. Ma tutto ciò non signi­fica affatto che l’epidemia è «sotto controllo». Anche perché buona parte del rallentamento sembra dovu­ta al naturale superamento di un picco epidemico. In totale, il numero dei malati non era mai stato tanto alto. E non è certo il momento di consolarsi, sottoli­nea Unaids, pensando che questo valore cresce an­che per effetto della propagazione dei trattamenti e dunque di una vita media più lunga. Per Margareth Chan, al timone del­l’Oms, questo è «il momento di rad­doppiare gli sforzi per salvare ancora più vite», in ragione proprio del fatto che «gli investimenti internazionali e nazionali per l’estensione dei tratta­menti dell’Hiv hanno dato risultati concreti e misurabili». In Africa, dove si registrano ancora i due terzi delle infezioni planetarie, l’e­sempio positivo più citato è il Botswa­na, uno dei Paesi tradizionalmente più martoriati. Qui, ormai, 4 malati su 5 ri­cevono cure e il numero di morti è stato più che di­mezzato nell’ultimo quinquennio. La tragedia nella tra­gedia degli orfani ha preso così pieghe meno cupe che in passato. Nei Paesi in via di sviluppo, in generale, su quasi 10 milioni di malati in attesa, il 67% non aveva nel 2007 alcun accesso alle cure, mentre l’anno scorso il va­lore è sceso al 58%. Michel Sidibé, direttore esecutivo di Unaids, ammette che c’è ancora moltissimo da fare, soprattutto perché «la programmazione della preven­zione è spesso lontana dalle realtà concrete». In Africa, ad esempio, gli investimenti nell’educazione alla salu­te e nella prevenzione sono stati di recente ridotti in di­versi Paesi, con un quasi dimezzamento registrato in Ghana fra il 2005 e il 2007.
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