sabato 12 febbraio 2011
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Sarà davvero sufficiente l’uscita di scena del pre­sidente Hosni Mubarak a far voltare pagina al­la Repubblica araba d’Egitto? La risposta non può che essere negativa. Il rais, in realtà, è solo la punta di un iceberg mastodontico, quello di una lea­dership militare che lo stesso presidente ha cocco­lato, nutrito, fatto arricchire nel corso di tre decenni. Fra Mubarak e i suoi generali esiste un rapporto di osmosi tale, fra interessi economici e politici con­divisi, per cui oggi è difficile immaginare la soprav­vivenza degli uni senza l’altro. Non sorprende che in Egitto, caduto il tabù della sa­lute del presidente, anche dopo 18 giorni di prote­ste popolari non si parli apertamente degli interes­si economici in divisa: le forze armate, la vera clas­se dirigente del Paese, sono rimaste sempre nell’ombra lasciando ad altri, i servizi segreti, il compi­to di sporcarsi le mani e atti­rarsi l’odio degli oppositori. Ancora oggi l’esercito gode della stima della popolazio­ne, che lo considera super partes. Ma presto, c’è da scommetterci, l’opinione pubblica comincerà a sbir­ciare nelle tasche dei suoi vertici militari e a chiedere spie­gazioni.Si ritiene che alme­no il 45% dell’economia egiziana sia controllato dal­l’esercito, che negli anni ha ricevuto in “dono” terre, fabbriche, proprietà immobiliari e complessi indu­striali in tutto il Paese. I militari hanno goduto dei proventi non solo dell’industria bellica – con com­messe da capogiro, negli anni ’80, da Saddam Hus­sein, dal Kuwait, dalla Somalia e dal Sudan, in par­ticolare – ma anche di quella civile. Ecco dunque che le forze armate traggono guada­gno dall’industria alimentare, tessile, manifatturie­ra, dall’agricoltura, dal turismo, dall’edilizia, da ce­mentifici e acciaierie, dal comparto sanitario e da quello degli idrocarburi senza essere mai tenute a rendere noto il proprio bilancio: tutto passa sotto il grande ombrello protettivo del Segreto di Stato.U­na volta in pensione dall’esercito, comandanti e ge­nerali assumono prestigiosi incarichi di governo op­pure si convertono al business nelle maggiori realtà industriali, talvolta di proprietà dello Stato talvolta privatizzate. Un intreccio fra affari, politica e sicu­rezza che ricorda da vicino il modello americano, di cui l’Egitto è un’emanazione nel mondo arabo: ogni anno, un fiume di dollari (1,3 miliardi) scorre da Wa­shington verso le casse del Cairo per finanziare la sta­bilità dell’alleato arabo, ritenuta indispensabile per il quieto vivere di Israele. Soldi di cui i cittadini egi­ziani non vedono neanche l’ombra, perché finisco­no direttamente al ministero della Difesa e della produzio­ne militare (circa 42.000 i di­pendenti): è di almeno 250 milioni di euro annui il pro­fitto netto derivante da atti­vità civili. Il budget ministeriale, esclu­si gli aiuti americani, è di 6 mi­liardi di dollari.Al decimo po­sto nel mondo per grandezza (tra 400.000 e 450.000 gli arruolati, mentre i riservi­sti sarebbero altrettanti), le forze armate egiziane si articolano in esercito, marina, aeronautica e avia­zione militare, cui si aggiungono forze paramilitari. Infine, le Forze di sicurezza centrali e quelle di con­fine, che però fanno capo al ministero degli Interni. Ora ai militari egiziani il compito, paradossale, di pi­lotare una svolta epocale verso una società sempre più civile e meno militarizzata che ne lederà gioco forza gli interessi e ne ridimensionerà il ruolo. In parte, il ministro della Difesa Mohammed Tantawi sembra aver già dimostrato di essere l’uomo giusto, lui che, conosciuto come il «cane barboncino di Mu­barak » fino a pochi giorni fa, non ha esitato, secon­do indiscrezioni, a criticare il presidente con la con­troparte statunitense. Dimostrando di voler saltare giù dal treno prima che deragliasse.
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