martedì 22 dicembre 2015
Il Psoe chiude al Pp. Podemos apre ai socialisti in cambio della Catalogna. Inizia una stagione nuova e difficile da gestire.
Spagna, tempo di partiti generazionali (Marco Olivetti)
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La corta victoria di domenica rischia di costare cara a Mariano Rajoy. La Spagna, borbottano i giornali all’indomani dello tsunami che ha falcidiato i consensi al Partido popular e al Psoe consacrando Podemos come terza forza arrembante, «si è italianizzata», o come ha chiosato non senza sulfurea ironia l’ex leader socialista Felipe González, è diventata «un’Italia senza gli italiani». L’horror vacui iberico – al di là del poco lusinghiero accenno al nostro Paese – ha una sua ragion d’essere e va capito: per quarant’anni il popolo spagnolo si è accomodato nella certezza di un bipartitismo inscalfibile, ora i socialisti, ora i popolari, con governi solidi e mai afflitti dalle insidie e dalle intemperie cui vanno soggetti i governi di coalizione. Non a caso il concetto politico di “centro” – così comune da noi, e senza il quale da noi non si governa – in Spagna è semanticamente assente: «C’è la destra e c’è la sinistra – come ci spiega il decano degli analisti Pedro Garcia Cuartango – senza mezze misure, come ai tempi della guerra civil: di qua il bando republicano, di là il Generalísimo. E adesso infatti c’è il vuoto». Un vuoto che è stato riempito da due formazioni politiche anti-casta, i Podemos di Pablo Iglesias e i Ciudadanos di Albert Rivera, i primi protagonisti di una formidabile remontada, i secondi piuttosto delusi per un’affermazione che alla vigilia sembrava quasi scontata, tanto da far prefigurare addirittura un’alleanza (o un appoggio esterno) al Partido Popular, ma con la clausola di esclusione che avrebbe indotto il premier uscente Rajoy a fare un passo indietro a favore della sua vice, la bella e popolarissima Soraya Sáenz de Santamaría.   Niente di tutto ciò. Perché se è vero che 123 seggi – tanti sono quelli conquistati dal Partido Popular in precipitosa caduta (ne ha persi 64, insieme alla maggioranza assoluta, peggior risultato dal 1989) – non bastano, certo quei 40 che ha raggranellato Rivera non sono sufficienti per un’alleanza di governo. E neppure il Psoe, che ieri si è affrettato a far sapere – ma non per bocca del segretario Pedro Sánchez (che di deputati ne ha perduti 20, sei milioni di voti in meno rispetto al 2008, evitando di un soffio l’umiliazione dell’adelantamiento, il temuto sorpasso da parte di Podemos) – che non appoggerà l’investitura a capo del governo del premier uscente Rajoy.  Le due forze nuove insieme totalizzano 109 deputati. Ma a cosa serviranno? Iglesias, codino al vento, reclama subito un “compromesso storico” (vista l’italianizzazione del voto era da prevedere), ovvero un’alleanza Psoe-Podemos con Pedro Sanchez futuro premier a condizione che il Psoe accetti la richiesta di un referendum sull’indipendenza della Catalogna, quesito già bocciato dalla Suprema Corte ma sul quale Iglesias è deciso a ritornare nonostante la spada di Damocle del Senato, dove non si vota la fiducia, ma dove il Partido Popular è maggioritario e inesorabilmente contrario all’indipendenza catalana, come contrari sono i Ciudadanos.  Ma si sa, l’ubriacatura post-elettorale di un movimento praticamente privo di concreta esperienza politica porta sovente – il caso di Syriza insegna – a una visione sconclusionata della realtà e, trattandosi di Podemos, ovvero di un raggruppamento basato quasi esclusivamente sul culto della personalità del proprio leader – anche qui il caso Tsipras docet – a una fuga in avanti. Le cinque “linee rosse” che ha srotolato sul tavolo (cinque come le tesi di Lenin, tra cui una riforma elettorale in senso proporzionale, lo stop al travaso di ex–ministri nei Cda delle imprese strategiche e il diritto inalienabile per tutti alla casa, alla salute, all’educazione e la necessità di riconoscere «la diversità dei popoli di Spagna»), già fanno paura.  «La Spagna – dice Iglesias – non sarà mai più una periferia della Germania. Lavoreremo per ridare un senso alla parola sovranità per il nostro Paese». Tamburi di guerra alla Varoufakis, insomma. La Borsa di Madrid l’ha subito capito, scivolando di un paio di punti mentre di riflesso saliva di quasi altrettanto lo spread sui titoli di Stato decennali. Messaggio chiarissimo: sbrigatevi a fare un governo di coalizione o tutti i sacrifici e i traguardi raggiunti dal governo Rajoy saranno inutili e la sfiducia tornerà sovrana. Già, ma come? Formula portoghese (un patto fra Psoe, Podemos, Izquierda unida più i nazionalisti baschi del Pnv), formula “all’italiana” (accordo Pp Psoe con l’astensione dei socialisti per l’investitura di Rajoy e successivo appoggio esterno), governo di minoranza (come suggerisce Rivera) o addirittura nuove elezioni? Un bel rebus per il giovane re Felipe VI, di fronte al quale al momento pare balenarsi un’unica certezza: quella che l’investitura di Rajoy non avrà (per ora, almeno) i voti del Psoe, né di Podemos. Protagonista di una cura cavallina imposta – c’era da chiederselo – dai segugi brussellesi eterodiretti dalla Germania, il galiziano Rajoy, hombre común, e in quanto uomo qualunque molto amato e rispettato, rischia di uscire di scena dopo aver traghettato il Paese dal collasso dell’economia a una inequivocabile ripresa che ha perfino invertito l’endemico trend della disoccupazione, indirizzandola a livelli pre-crisi. Ma la politica, lo sappiamo, si nutre anche di simili irriconoscenze e di passi all’indietro obbligati. Lui stesso lo aveva profetizzato anni fa, parlando della crueldad de la política. Che forse sta già bussando alla porta della Moncloa.
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