sabato 9 settembre 2023
Una terra arida, di migranti, di polvere e sassi. Di fuga dal Marocco verso un sogno che li ha sempre identificati non come un aggettivo del loro Paese, ma come un epiteto
I danni nella medina di Marrakech

I danni nella medina di Marrakech - Reuters

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Le stesse facce. Imbiancate dalla polvere sollevata dalle macerie e con gli occhi fissi, che guardano verso un futuro che con il passare delle ore si convincono sia già passato. Le stesse facce viste nelle immagini arrivate la mattina del 6 febbraio scorso da Gaziantep in Turchia o dai paesini poco al di là del confine siriano. Le stesse facce di Amatrice, dell’Aquila. E il buio, le luci delle fotoelettriche, i bambini che piangono. I marocchini, i turchi, gli italiani convivono da sempre con la paura, che arriva sempre di notte e sembra sempre più gigantesca. Come quando le bombe esplodono sopra l’Ucraina, lo fanno sempre, sempre di notte. Perché terrorizza di più, disorienta uccide due volte prima di paura e poi di morte vera.

In Turchia e Siria sono stati più di 57mila i morti, sull’Alto Atlante marocchino il loro numero cresce di ora in ora e passano dalle decine alle centinaia. Perché poi il terremoto è anche “vigliacco”, equipara tutti ricchi e poveri, africani, europei, asiatici. Anche se però, non sempre per colpa sua, i danni più devastanti li lascia nelle zone che già nulla hanno: sui monti dell’Atlante tra il deserto e il mare la vita è dura, acqua strappata al sottosuolo e poche cose da coltivare per sopravvivere. Per quelle facce ci sarà ora vicinanza, solidarietà e aiuto. Non per molto, non si illudono certo pensandoci. Tutto poi tornerà come prima, tranne le persone che non si rivedranno più e le macerie da sgomberare. Questa volta è toccato a un popolo di migranti. Come lo eravamo noi. Migranti per fame, arrivati più di trent’anni fa nel nostro Paese che ha loro trasformato quelle che è una nazionalità quasi in un epiteto. “Marocchino” con il passare degli anni ha assunto l’accezione più deteriore, per poi lasciarla in eredità ai migranti di seconda generazione, di terza e di quarta. In fuga dalla miseria, dalla terra senz’acqua per un clima sempre più ostile. Balzati su dal letto una notte, scossi da una sveglia caricata per l’ultima volta con gli odori e i rumori della casa in cui sono nati. Una notte forse di stelle per camminare ore e ore, scendere dalle pendici dell’Atlante e verso il mare. Una notte che apre alla speranza, senza sapere che cosa li aspetta. Improvvisa come la scossa che ha fatto balzare i loro fratelli, sorelle, padri, madri o nonni nel cuore della notte che si è appena addormentata.

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