martedì 31 ottobre 2023
Protestano con Israele reporter internazionali. Con la tecnologia attuale potremmo vedere tutto. Le opinioni pubbliche nelle democrazie devono sapere e poi giudicare le scelte dei loro rappresentanti
Giornalisti a Gaza durante un bombardamento

Giornalisti a Gaza durante un bombardamento - Ansa

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Qualcuno ricorderà la drammatica (anche se forse posata) fotografia che nel maggio 2011 ritraeva un’affollata Situation Room alla Casa Bianca. Il presidente americano Barack Obama, il suo allora vice Joe Biden insieme ai più alti vertici politici e militari, sui volti un’espressione tesa, stavano osservando in diretta l’operazione Neptune Spear finalizzata alla ricerca di Osama Benladen. Nelle immagini riprese dai droni, veniva seguita in tempo reale l’incursione nel covo dove si era nascosta la mente dell’attacco dell’11 settembre 2001. L’irruzione delle forze speciali si concluse, com’è noto, con la morte del capo di al-Qaeda.

Quello scatto torna d’attualità nei giorni dell’attacco dell’esercito israeliano a Gaza. Già oltre dieci anni fa era possibile monitorare un’azione notturna a migliaia di chilometri di distanza, avendo ben chiaro il quadro bellico in evoluzione. Forse Benjamin Netanyahu e i generali di Tel Aviv vedono che cosa accade nella Striscia momento per momento, ma nessun altro, nell’era dell’informazione globale che rilancia istantaneamente riprese video di ogni tipo, sa in che modo viene condotta l’invasione decisa in rappresaglia al massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre.

Siamo di fronte a una guerra quasi totalmente oscurata, con tutto ciò che questo comporta. Nessun giornalista internazionale si è potuto aggregare alle forze che hanno varcato il confine. Un vulnus alla libertà di stampa e di espressione, una limitazione al diritto di informare e di essere informati, come hanno denunciato centinaia di inviati di media internazionali in una lettera aperta al governo dello Stato ebraico. Né il pubblico israeliano né quello internazionale conosce i contorni reali dell’invasione: l’entità degli scontri, i caduti, gli obiettivi colpiti, i movimenti sul campo, se non per le poche note diffuse dai portavoce in divisa, che si limitano a enfatizzare l’eliminazione di alcuni leader del movimento fondamentalista. Ovviamente, spettatori diretti dei combattimenti sono i cittadini di Gaza, che qualche testimonianza e filmato riescono a fare filtrare all’esterno, senza però che in molti casi si possa valutarne l’attendibilità.

La scelta di Tel Aviv è comprensibile, ma anche problematica. Comprensibile perché evita di mostrare le distruzioni di palazzi e interi quartieri nella caccia ai terroristi e le uccisioni di civili, coinvolti inevitabilmente nei bombardamenti, anche per la volontà di Hamas di usarli come scudi umani. Quelle immagini e quei racconti da parte di reporter indipendenti potrebbero alimentare la protesta pro-palestinese nei Paesi arabi ma anche in Occidente. Non da ultimo, avrebbero anche l’effetto di aprire un dibattito interno, che nell’ignoranza degli effetti reali dell’offensiva rimane invece limitato. Ma se nessuno vede, molti interrogativi sorgono inevitabilmente.

Le forze armate stanno rispettando il diritto internazionale umanitario, in termini dei principi di distinzione e proporzionalità, colpendo soltanto obiettivi bellici legittimi? Chi decide sul terreno, tra politici eletti e militari di carriera, se spingersi a cercare i capi di Hamas dentro infrastrutture come ospedali e scuole, che dovrebbero essere tutelate in modo assoluto? Si sta sfruttando la tecnologia per riprendere e registrare tutte le azioni che richiedono l’uso delle armi, in modo da avere una documentazione successivamente consultabile? Di fronte alla possibile denuncia di crimini di guerra alla fine delle ostilità, ci sarà modo di ricostruire in modo adeguato ciò che è avvenuto?

Una democrazia liberale non può permettersi un blackout informativo prolungato, soprattutto in fasi decisive della propria storia. Ovviamente, non è neppure possibile essere ingenui al punto da pensare che si debbano rendere pubbliche notizie che possano avvantaggiare il nemico. C’è una fase in cui è d’obbligo tenere coperte le strategie future e le mosse in corso, anche per la sicurezza delle proprie truppe. Ma la cortina del segreto sembra incompatibile con il dovere della trasparenza che è dovuta in primo luogo ai propri cittadini, e anche a quelli dei Paesi che sono alleati e sostenitori di Israele (l’informazione del mondo arabo per contro ha cercato di nascondere la strage di Hamas). Un conflitto opaco non può che aumentare la sfiducia e la diffidenza verso la causa di coloro che lo promuovono, anche se non hanno nulla da nascondere.
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