Un veicolo della Croce Rossa Internazionale che trasporta gli ostaggi rilasciati da Hamas si dirige verso il punto di confine di Rafah con l'Egitto per il passaggio in Israele - ANSA
Giorno dopo giorno, 13 per volta, sono tornati a casa i primi dei 239 ostaggi presi da Hamas durante il massacro del 7 ottobre. Dopo 50 giorni di incubo, molti sopravvissuti finalmente si sono potuti riunire ai loro cari, riabbracciandoli. Eppure è un abbraccio “a metà”, perché le famiglie non sono e non saranno più quelle di prima.
Abigail Mor Idan, 4 anni, è stata finalmente liberata. Ma al suo ritorno, ad aspettarla, c’erano la zia e la cugina: sua madre è stata uccisa davanti ai suoi occhi, mentre suo padre è stato colpito a morte mentre cercava di proteggerla. Abigail, che ha passato il suo quarto compleanno in prigionia, è corsa via, si è rifugiata nella casa di un vicino, da dove è stata rapita.
Quasi tutte le famiglie degli ostaggi hanno perso qualcuno durante la mattanza, alcune nel modo più feroce. Un dolore raddoppiato da quello di avere un parente disperso. Triplicato dall’avere un congiunto a Gaza. Moltiplicato nel modo più crudele fino all’ultima tortura inflitta scientemente da Hamas, che ha separato i membri delle famiglie tenute in ostaggio il giorno prima del rilascio di uno o due di loro. «Hamas sta giocando con il cuore delle persone», ha detto Yair Rotem, sopravvissuto al massacro, che sabato ha potuto riabbracciare la nipotina Hila Rotem Shoshani, di 13 anni separata dalla madre Raya, sorella di Yair e non ancora liberata, due giorni prima di essere rilasciata. «Siamo molto felici di avere mia nipote, ma abbiamo sentimenti contrastanti. Siamo felici di riaverla qui, ma non abbiamo ancora riabbracciato mia sorella – ha spiegato Yair, che nei giorni scorsi era arrivato a Roma insieme a una delegazione di parenti di ostaggi israeliani per incontrare il Papa –. Pensiamo che tutti sappiano che sia una violazione rude dell’intesa. Credo che i media dovrebbero denunciare tale violazione da parte di Hamas, che ha fatto una cosa molto cinica e disumana».
Tutte le famiglie “spezzate” macinano paura e angoscia. Con un passato interrotto. E un futuro incerto. Senza nemmeno un “dove” per ricominciare visto che ci vorranno mesi, forse anni, prima che i sopravvissuti possano tornare a casa, nei kibbutz che sono stati messi a ferro e fuoco dal gruppo terroristico. Per ora soggiornano negli hotel tra il Mar Morto ed Eilat: centri di accoglienza provvisori che sono stati organizzati a sud e nord di Israele per i superstiti, e per gli sfollati che hanno dovuto abbandonare le loro case a causa dei costanti attacchi missilistici provenienti dalla Striscia. Eilat, da meta privilegiata del turismo in questi giorni è una città fantasma, abitata da 65.000 rifugiati. Oltre a numerosi volontari, tra cui 50 professionisti inviati dal Centro di Salute Mentale Shalvata, per fornire pronto soccorso psicologico, con lo scopo di alleviare la tempesta emotiva di queste famiglie spezzate. Come spiega David Roe, psicologo clinico e presidente del Dipartimento di Salute mentale comunitaria dell’Università di Haifa: «Intorno a queste famiglie distrutte ci sono bambini di tutte le età, senza scuola, le cui giornate diventano insostenibili, anche se i volontari dell’esercito fanno l’impossibile per organizzare per loro qualche ora di attività. Sono tutti traumatizzati ma, al tempo stesso, hanno un grande bisogno di senso di comunità». Chissà quanto tempo servirà, dopo essersi ritrovati, per ritrovare una vita.
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