lunedì 30 ottobre 2023
La psicologa Anat Berko ha trascorso 20 anni nelle carceri di massima sicurezza israeliane dove sono detenuti i terroristi
Una manifestazione di sostenitori di Hamas

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C’è un lungo processo di socializzazione che inizia nella prima infanzia. E c’è una violenza inespressa in alcuni che viene canalizzata nell’odio verso l’altro, il diverso, chiunque sia. Non solo gli ebrei. «Il 7 ottobre hanno catturato e ucciso persone di decine di diverse nazionalità», afferma Anat Berko, criminologa israeliana, specializzata nello studio delle organizzazioni terroristiche di matrice jihadista e degli attentatori suicidi. Per realizzare le sue ricerche, l’esperta dell’Israel’s national defence institute ha trascorso oltre venti anni nelle carceri di massima sicurezza dove ha avuto occasione di intervistare a lungo e faccia a faccia i principali leader di Hamas, incluso il fondatore, Ahmed Yassin.

Professoressa Berko, lei è una donna ebrea. Come reagivano, trovandosi di fronte a lei, i capi di Hamas?

Mi presentavo per quello che sono, una ricercatrice, interessata ad ascoltare il loro punto di vista. E devo dire che mi accettavano, si sono sempre comportati con rispetto. I miei genitori sono cresciuti in Iraq, dunque ho il vantaggio di conoscere i “codici” della cultura islamica. E loro se ne rendevano conto. Un esponente di primo piano dell’ala politica di Hamas, addirittura mi ha detto che avrebbe voluto per sua figlia una carriera come la mia.

Che cosa intende?

Gli avevo domandato che cosa avrebbe fatto se suo figlio o sua figlia avesse deciso di diventare un kamikaze. Mi ha risposto che non l’avrebbe permesso, non avrebbe consentito loro nemmeno di partecipare a una dimostrazione. “Non è il loro compito. Loro devono studiare. E avere una buona professione. Proprio come te”, mi ha detto.

E con Ahmed Yassin di che cosa avete parlato nelle vostre conversazioni?

Ci siamo concentrati sulla questione del genere. Insisteva molto nel contestare quello che definiva “il concetto occidentale di uguaglianza”. Sosteneva che l’islam riconosce dei diritti alle donne e che queste devono avere una forma di giustizia, rifiutava, però, la parità.

Che cosa spinge un ragazzo, spesso molto giovane, a diventare un miliziano di Hamas?

Hamas cerca di “educare” ogni bambino della Striscia, fin dai primissimi anni di vita, affinché diventi uno “shahid”, in arabo “martire”, ma qui si intende attentatore suicida o destinato a missioni suicide. Nelle scuole, nelle moschee, ai ragazzini viene “venduta” la promessa di una vita migliore dopo la morte «combattendo contro gli ebrei e gli infedeli». La futura esistenza ultraterrena viene descritta fin nei minimi dettagli. Chi cresce in questo modo, finisce per desiderare quel tipo di morte, al più presto. Da qui è nato il massacro del 7 ottobre. Personalmente, non mi aspettavo tanta efferatezza. So, però, che l’ideologia di Hamas presuppone la disumanizzazione di chiunque sia diverso. Questa non è cambiata nel tempo, è solo diventata sempre più estrema e feroce.

Lei ha intervistato anche molte donne di Hamas. Vale anche per loro?

Per le donne è differente. In genere, tante aderiscono ad Hamas per riparare un “danno” inflitto all’”onore” del gruppo familiare da loro stesse o da qualche altro parente. Ad esempio, quando c’è il sospetto che la ragazza in questione abbia avuto una “relazione sentimentale illecita”. O quando un esponente della famiglia ha collaborato con Israele. In quel caso, la loro militanza e morte diviene una sorta di “espiazione” agli occhi della società.

Alla luce della sua esperienza, crede che Hamas possa essere sconfitto militarmente?

Con le armi si possono distruggere le infrastrutture di Hamas, la logistica e molti dei loro comandanti. Temo, però, che la sua ideologia sopravviverà. Al momento, però, non vedo alternative per Israele al conflitto.

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