venerdì 12 aprile 2024
Parla lo scrittore Nathan Thrall statunitense di origine ebraica: il dibattito sul 7 ottobre si è concentrato sui sistemi di sicurezza carenti e non sul conflitto irrisolto con i palestinesi
Manifestanti israeliani chiedono la liberazione degli ostaggi

Manifestanti israeliani chiedono la liberazione degli ostaggi - Reuters

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«Chiamiamo certi eventi disgrazie quando sono l’inevitabile conseguenza dei nostri progetti, e altri eventi li chiamiamo necessità semplicemente perché non vogliamo cambiare idea». Svelare quei progetti e le idee ostinate di cui si nutrono è il compito della parola. Una parola che rifiuta di essere complice. A trovarla e a scriverla Nathan Thrall che ha dedicato gli ultimi 18 anni come giornalista e come scrittore. Da quando si è trasferito dalla California – dove è nato da una famiglia ebrea – a Gerusalemme e ha cominciato a toccare con mano l’impatto umano dell’interminabile guerra mediorientale. Al conflitto ha dedicato approfondite inchieste e il prestigioso saggio “The only language the understand” (l’unica lingua che capiscono) sulla necessità da parte della comunità internazionale di premere su Israele per una soluzione politica della questione palestinese. «Ho cercato, con una serie di ragionamenti razionali, di convincere i decisori pubblici a prendere posizione. Molti di loro l’hanno letto e hanno concordato con me. Mi hanno, però, detto di avere le mani legate perché si trattava di tesi impopolari, impossibili da sostenere», racconta l’autore nell’appartamento di Musrara, quartiere-spartiacque tra la Gerusalemme araba e quella ebrea. «Ho capito allora che l’unico modo per promuovere un cambiamento era rendere consapevole l’opinione pubblica. Per questo, ho scelto di parlare un altro linguaggio», aggiunge. È nato, così, «Un giorno nella vita di Abed Salama», uscito in Israele e negli Usa pochi giorni prima del 7 ottobre e diventato un caso letterario, tanto da essere incluso dal New York Times e dal Financial Times nella classifica dei migliori libri del 2023. In Italia è stato appena pubblicato da Neri Pozza. In bilico tra giornalismo narrativo e letteratura, attraverso il racconto dell’odissea di un padre palestinese per recuperare il corpo del figlio di 5 anni, morto in un incidente alla periferia di Gerusalemme, catapulta il lettore nell’assurdità quotidiana dell’occupazione israeliana della Cisgiordania. Tema scottante che Thrall affronta con una sensibilità libera da ideologie.
Che cosa l’opinione pubblica non sa o non vuole vedere dell’occupazione?
Il fatto che non è qualcosa di separato dallo Stato di Israele. Non solo quest’ultimo si manifesta nei 700mila suoi cittadini - uno su dieci - che si sono stabiliti nei Territori, ma anche attraverso i servizi – dalla scuola alla sanità – garantiti a questiultimi. Nell’unica entità sovrana attualmente esistente tra il Giordano e il mare – Israele –, ebrei e palestinesi vivono fianco a fianco ma secondo diverse leggi. Ai primi sono garantiti pieni diritti. I secondi sono suddivisi in una molteplicità di categorie a cui sono associate quote di diritti via via minori. Tutte, comunque, hanno meno diritti degli ebrei.
Gli accordi di Oslo avevano trovato una soluzione, per quanto imperfetta, trent’anni fa. Perché non hanno funzionato?
I palestinesi non avevano il potere di implementarli. E gli israeliani non avevano interesse a farlo. I successivi governi di Tel Aviv hanno agito secondo una logica meramente razionale. Tra consentire la creazione di uno Stato palestinese, con tutti i limiti, o mantenere lo status quo senza dover pagare alcun costo per questo, hanno trovato più conveniente la seconda opzione. Il 7 ottobre ha dimostrato che, in realtà, il costo c’è ed è terribilmente salato.
Questa tragedia potrebbe rappresentare un punto di svolta?
Purtroppo il dibattito sul 7 ottobre si è concentrato sugli errori nei sistemi di sicurezza, trascurando il punto centrale: il conflitto irrisolto con i palestinesi. L’unica speranza è una spinta esterna.
Di che tipo?
La comunità internazionale dovrebbe far sì che per Israele sia più costoso mantenere lo status quo piuttosto che risolvere il conflitto.
Come?
Prevedendo delle conseguenze per Israele. Ci sono dei meccanismi di pressione, sanzioni di minore o maggiore gravità, che potrebbero essere efficaci e eviterebbero ulteriori spargimenti di sangue. Non facendo niente il mondo sta condannando i due popoli a una violenza senza fine. L’inerzia internazionale è il maggior supporto per Hamas. I giovani palestinesi devono vedere che c’è un’altra strada e produce migliori risultati delle armi. L’unico modo perché accada è che il mondo agisca per restituire loro la libertà e i diritti.

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