venerdì 13 ottobre 2023
Marcello Pezzetti è uno dei massimi studiosi della Shoah. «Sbagliato fare paragoni, ma è arrivato il momento di fare sforzi enormi per denazificare quella società»
Lo storico Marcello Pezzetti

Lo storico Marcello Pezzetti - .

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«Non è paragonabile» alla Shoah, ma è «molto peggio» di un pogrom. Nonostante i tanti anni passati a indagare l’abisso, anche Marcello Pezzetti, tra i massimi studiosi della Shoah in Italia e in Europa, fatica a trovare le parole giuste per definire ciò che è accaduto in Israele. «È l’espressione di un male, di un male vero, di un male profondo», dice lo storico. E aggiunge: «Ma abbiamo bisogno, per forza, di fare paragoni con la Shoah? Questa è un’altra cosa. La Shoah è il frutto di una decisione, dell’organizzazione di uno Stato nella sua forma più completa – allora dello Stato per eccellenza in Europa e non solo - nei confronti di una minoranza che viveva in tutti i Paesi d’Europa. Questa situazione è estremamente diversa e io non farei mai questi paragoni. È chiaro che quando si assiste all’uccisione e alla decapitazione di bambini si pensi ad esempi che la storia ci ha mostrato. Io non uso nemmeno la parola pogrom, anch’essa molto utilizzata in questi giorni, perché questo è molto peggio di un pogrom. Ma non è nemmeno la Shoah».

Ma c’è una parola che può definire tutto questo orrore?

È il frutto di un odio covato da tantissimi anni, ma è anche il risultato di scelte sbagliate, purtroppo, del governo israeliano. Da questo punto di vista sono abbastanza d’accordo con Haaretz (il quotidiano israeliano progressista ha chiesto le dimissioni del premier Netanyahu, ritenendolo corresponsabile a causa delle sue politiche di «annessione ed esproprio» dei territori palestinesi ndr.). Bisogna fare di tutto per evitare i conflitti, non dare occasioni perché questi divampino. E poi, è chiaro che con queste azioni di Hamas è diventato tutto terribilmente più difficile, perché si manifesta un odio atavico nei confronti non soltanto degli israeliani ma degli ebrei in genere. C’è qualcosa di profondo, su cui dobbiamo lavorare. Nel 1945 la nazione più antisemita al mondo era la Germania appena uscita dal nazismo. Dopo tanti anni di inculturazione antisemita, c’era nella popolazione questo tipo di sentimenti. La Germania ha fatto uno sforzo enorme, aiutata anche da altri, in questo caso gli Stati Uniti, per denazificare la società. Anche noi, oggi, dovremmo fare uno sforzo per eliminare l’antisemitismo da quella parte della società palestinese che odia gli ebrei.

Ma come è possibile avviare questo cammino comune, che dovrebbe riguardare Paesi e culture diverse, se nel Parlamento italiano non si riesce nemmeno ad approvare una mozione unica di condanna del terrorismo di Hamas?

Nel 1945 la situazione era identica nei confronti di quello che era successo e di chi aveva le colpe. Con l’ambiguità americana che, in quel momento, definiva più pericolosi i comunisti sovietici dei nazisti, che pure erano ancora nella società tedesca. Era complicatissima quella situazione, è complicata questa. Però, bisogna andare avanti, anche a piccoli passi, ma bisogna andare avanti. Non c’è un’altra via.

Cosa pensa delle manifestazioni studentesche contro Israele di questi giorni?

Sono vittime, colpevoli, di una scelta ideologica. Non si rendono conto che sono ancora imbevuti di stereotipi. Che, se fossero oggetto di un’analisi seria, li metterebbero alla berlina. Bisogna aiutare quei giovani a far sì che non sbaglino. Poi, se uno commette un reato, va condannato e punito. Con gli altri, bisogna cercare un dialogo, un confronto.

Se non bastano nemmeno i viaggi della memoria ad Auschwitz per le scuole, cosa si può fare di più?

In tutti questi anni, dopo tanti viaggi, ho capito che la storia non insegna. Che la storia non è magistra vitae. Basterebbe vedere che cosa ha saputo fare di terribile l’uomo dopo la Seconda guerra mondiale. Una volta, ho chiesto ad una sopravvissuta di Auschwitz quale fosse la cosa che più le avesse fatto male da quando era uscita dal lager, dove aveva perso una figlia e una nipote. «Quando ho saputo che cosa aveva fatto Pol Pot», fu la risposta. Perché era convinta che una tragedia come quella della Cambogia non potesse mai accadere, dopo Auschwitz. E, invece, è successo. Dobbiamo fare i conti con la realtà: queste cose succedono e succederanno. Noi dobbiamo farle succedere il meno possibile e cercare di aiutare le persone a non farle succedere.

Lei vive in Germania, apparentemente al sicuro: ma adesso ha paura?

No, in Europa non ho paura. Per adesso. Perché qui la prevenzione funziona abbastanza bene. Come anche in Italia. Mia figlia fino a pochissimo tempo fa abitava e lavorava in Israele. Sembra incredibile dirlo, ma sono sollevato dal fatto che lei non sia lì in questo momento. Non ho paura del futuro, di quello che succederà. Credo che dobbiamo fare i conti con la nostra coscienza, non soltanto per ciò che riguarda l’antisemitismo, ma per come guardiamo all’altro, al diverso. E su questo, illuminanti sono le parole di papa Francesco e del presidente Mattarella. E noi abbiamo il dovere di fare di tutto per la pace.

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