lunedì 11 dicembre 2023
La produzione alimentare è responsabile, in modo diretto o indiretto, del 30% delle emissioni globali. Per la prima volta a Dubai si è definito un percorso per raggiungere gli obiettivi climatici
Un allevamento di maiali in Irlanda

Un allevamento di maiali in Irlanda - Epa

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Il cibo è uno dei “grandi inquinatori”. Dalla sua produzione derivano, in modo diretto o indiretto, il 30 per cento delle emissioni globali. Senza la trasformazione di agricoltura, allevamento, pesca non è, dunque, possibile contenere il riscaldamento globale entro livelli accettabili. Gli esperti lo affermano da tempo. Finora i vertici Onu sul clima, però, avevano dedicato poca attenzione alla questione.

La Cop28 segna un’inversione di rotta. Il summit si è aperto con la “Dichiarazione degli Emirati” – sottoscritta da 152 Paesi – che sancisce l’impegno per modificare i sistemi alimentari in linea con gli obiettivi climatici. L’Italia l’ha subito sottoscritta. E il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto, ha annunciato un contributo di 10 milioni per contribuire ad implementarla, catalizzando investimenti per progetti di nutrizione nel Sud del pianeta. Brasile, Cambogia, Norvegia, Ruanda e Sierra Leone hanno, poi, lanciato una coalizione per dare impulso al processo. Domenica, inoltre, l’Agenzia Onu per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) ha presentato la prima road map per combattere fame e malnutrizione senza sforare la soglia di equilibrio di 1,5 gradi.

«Non si tratta di scegliere tra nutrire il pianeta o inquinare. È il contrario. Inquinando meno si contribuisce a una nutrizione più equa e soddisfacente per tutti. Finora la produzione di cibo è stato uno dei maggiori problemi. Ora può diventare parte della soluzione», dice ad "Avvenire" María Helena Semedo, vicedirettrice della Fao, a Dubai per inaugurare l’avvio della svolta.

Del resto, la crisi climatica grava come un macigno proprio sulle spalle del settore alimentare. Siccità, alluvioni, fenomeni meteorologici estremi minacciano oltre un terzo delle derrate mondiali. Piccoli coltivatori e allevatori, pescatori artigianali – quanti, cioè, sfamano il mondo garantendo l’80 per cento della produzione – sono le prime vittime delle catastrofi ambientali che distruggono le loro già fragili economie. Il documento della Fao fissa venti mete ambiziose da raggiungere tra il 2025 e il 2050. Come la neutralità carbonica entro il 2035. O il taglio di un quarto delle emissioni di metano causate dall’allevamento entro il 2030.

Per lo stesso anno si parla di riformare la pesca in senso sostenibile, garantire l’accesso universale all’acqua pulita, dimezzare gli sprechi ed eliminare le biomasse per cucinare. Per realizzare gli obiettivi vengono indicate 120 azioni ancora abbozzate, maggior dettagli dovranno essere sviluppati nelle prossime due Cop. «Le alternative, anche grazie all’innovazione tecnologica, esistono. Non si tratta di produrre meno ma di farlo in modo diverso. I sistemi integrati consentono, ad esempio, di diminuire drasticamente la deforestazione – spiega la vicedirettrice della Fao –. Lo abbiamo sperimentato sul campo. Proprio ora stiamo lavorando con i piccoli produttori di cacao in Africa e con loro abbiamo toccato con mano come, coltivando all’interno della selva, senza abbatterla, si ha un raccolto di maggiore qualità. Ancor più quando si fanno pascolare anche gli animali che fertilizzano la terra».

È la mancanza di risorse a frenare l’implementazione delle alternative già disponibili. Tra il 2019 e il 2020, all’agricoltura è andato appena il 4 per cento dei fondi totali impiegati per contrastare l’emergenza climatica, secondo lo studio di Climate policy initiative. Nel 2021, gli investimenti sono calati ulteriormente del 12 per cento. «È una strategia miope – sottolinea Semedo –. Il sistema alimentare è chiave nel contrasto della crisi ambientale. Tutti devono contribuire alla sua riconversione: i governi, le istituzioni finanziarie internazionali, il settore privato. Anche i grandi produttori devono decidersi a cambiare. Il principio del “business as usual”, gli affari al primo posto, non funziona più».

Il settore dell’agrobusiness forse la pensa diversamente a giudicare dalla massiccia presenza di lobbysti inviati alla Conferenza. L’organizzazione di monitoraggio DeSmog ne ha contati 340, il triplo rispetto al vertice di Sharm el-Sheikh. Circa un quarto sono quelli legati alla produzione di carne. Il loro interessa conferma come il cibo sia uno dei punti cruciali del summit di Dubai. Eppure la bozza di documento finale non ne fa cenno. «Spero davvero che i negoziatori si rendano conto del paradosso e correggano – conclude la vicedirettrice della Fao –. Altrimenti sarebbe un’occasione persa».

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