giovedì 16 febbraio 2023
Dopo il sisma del 2010, che uccise 316mila persone, il mondo promise di «ricostruire meglio». Ma gli aiuti record da 6,4 miliardi hanno edificato cattedrali nel deserto e le gang imperversano
Un terremoto lungo 13 anni: Haiti, l'isola sprofondata e mai rinata

Ansa

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Ayti pap bliye, Haiti non dimentica. A poco più di un mese dal tredicesimo anniversario del maxi-terremoto del 12 gennaio 2010, la scritta nera scolorisce sugli striscioni di plastica bianca o gialla appesi per le strade di Port-au-Prince. Una delle peggiori catastrofi della storia, secondo le Nazioni Unite, di certo la più letale degli ultimi vent’anni.

In una manciata di secondi, la scossa di 7.6 gradi Richter uccise 230mila persone, quasi altre centomila morirono nei giorni seguenti per le ferite, per un totale di 316mila. Tra loro il 20 per cento dei funzionari statali.

La capitale divenne un cumulo di macerie. In realtà, lo era già prima: duecento anni di occupazioni straniere, colpi di stato, dittature, conflitti civili, hanno reso questo il Paese più povero d’Occidente. In tale contesto, il sisma è stato – come ha detto il politologo Brian Concannon – l’epifania di un disastro plurisecolare.

Perfino la distratta comunità internazionale se ne accorse. E si impegnò solennemente a «ricostruire meglio» la nazione in ginocchio con la cifra record da 6,4 miliardi di dollari. «We built back better», disse Bill Clinton, commissario speciale dell’ente per la riedificazione, gestito da Onu, principali Stati donatori e governo haitiano.

Il terremoto doveva essere uno spartiacque. In effetti lo è stato, ma non nel significato sotteso alle promesse di 13 anni fa. Ha segnato non un nuovo inizio bensì la distruzione di quel che restava dello Stato haitiano.

E lo sprofondare di questo frammento d’isola in una serie di cataclismi successivi, umani non naturali, cuciti insieme dal filo rosso della mancata rinascita: lo scandalo di mazzette Petrocaribe, le proteste e la crisi politica culminata nell’assassinio del presidente Jovenel Moïse il 7 luglio 2021, l’avanzata delle gang cresciute all’ombra dei politici e ormai fuori controllo. Sono loro le protagoniste della guerra che da tre anni dilania la nazione, impedendo agli abitanti di lavorare, uscire, vivere.

Il conflitto ha fatto saltare quest’anno anche il consueto omaggio alle vittime del terremoto.

Situato a 18 chilometri dalla capitale, il Memoriale di Titayen, dove riposano in fosse comuni, è off-limits. La zona è stata per mesi campo di battaglia fra le bande. Poi, il 21 gennaio scorso, il gruppo “Les Talibans” ha conquistato gran parte delle montagne affilate di Titanyen dove si estende Canaan. Così si chiama la “terra promessa tropicale” in cui dovevano essere ricollocati l’1,5 milioni di sfollati del sisma dopo la realizzazione nell’area, remota ed isolata, delle infrastrutture di base, dagli impianti idrici ai trasporti.

I soldi, in teoria, non mancavano. In teoria, appunto. Gran parte dei 6,4 miliardi di euro di aiuti, in realtà, è tornato indietro: oltre il 97 per cento dei milionari contratti d’appalto è stato assegnato ad aziende delle nazioni donatrici, come diverse inchieste hanno dimostrato. A organizzazioni e imprese locali è andato a malapena il 2,3 per cento.

«Il resto è semplicemente sparito», spiega Gotson Pierre, reporter e analista della piattaforma AlterPresse e AlterRadio. A parte quanto fatto da Ong, associazioni e Chiese, con sforzi spesso eroici, i fondi gestiti dai governi – internazionali e nazionali – hanno creato cattedrali nel deserto. Come il lussuoso Marriott, perennemente mezzo vuoto, il Best Western chiuso nel 2019 causa violenza o i nuovi giardini di Champs de Mars, inaccessibili perché è uno dei “terreni di caccia” di ostaggi da parte delle gang che si finanziano con i rapimenti.

«Il problema non è mettere a disposizione dei fondi. Ma trovare la modalità corretta di farlo», spiega Sergio Gatto, ambasciatore dell’Ue ad Haiti. Un tragico monito per le ricostruzioni in Turchia e in Siria.

Canaan attende ancora la riqualificazione. Nel frattempo, stanchi di aspettare nei campi, 300mila senza casa vi hanno edificato baracche di lamiera e scavato stradine improvvisate. L’ennesima baraccopoli di Port-au-Prince, suddivisa in agglomerati dai nomi suggestivi, come Jerusalém o Korail, ostaggio della miseria e, ora, di Les Talebans. Come accade quando si impadronisce di un territorio, per scoraggiare eventuali ribellioni, la gang ha massacrato tantissimi civili, violentato sistematicamente le donne, incendiato le baracche.

Perfino l’alloggio delle suore brasiliane, impegnate in un progetto inter-congregazionale, è stato saccheggiato e le religiose sono state cacciate. «Per fortuna non le hanno maltrattate. Non posso accedere alla chiesa: non celebro la Messa da tre settimane», racconta il parroco, lo scalabriniano padre Agler Cherizier.

«Non ho aspettato che mi prendessero. Vendevo “paté” (sfoglia locale, ndr) per strada, come al solito, quando ho sentito gli spari. Non ho fatto in tempo nemmeno a raccogliere i miei pochi averi. Ho preso i bambini e mio marito e siamo fuggiti», dice Ladetsh, 25 anni, magrissima nonostante la gravidanza. Dopo giorni di vagabondaggio, ha saputo che c’era spazio a Boulos, un anfratto di Delmas 48, nel centro della città. Là, aggrappate ai fianchi di colline calcaree, vivono 750 famiglie.

Gli abitanti più “antichi” sono arrivati all’indomani del terremoto del 2010 e si sono aggiudicati lo spiazzo in basso dove hanno edificato casette di compensato, scavato pozzi e piazzato cucine da campeggio. Man mano si sono sommati i nuovi sfollati di guerra. Almeno 155mila persone, secondo i dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), di cui 40mila accampati in cinquanta siti della capitale: edifici abbandonati, sterrati, piazze, ovunque, senza acqua né elettricità, come a Boulos.

«Negli ultimi sei mesi c’è stato un boom», afferma Waner di Dambiah, piccola fondazione locale che cerca di aiutare i profughi. «Sono arrivato tre settimane fa da Koreil. Ho tre figlie, dovevo salvarle dalla gang, non volevo le stuprassero», racconta Wilson mentre termina di fissare con il fil di ferro due pezzi di lamiera su cui le bambine si riparano dal sole cocente. «Tornerò a casa? Non so neppure se ce l’ho ancora una casa. L’avevo costruita da solo quando la mia era stata distrutta dal terremoto. Ora ho perso tutto, di nuovo. Quante altre volte accadrà?».



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