mercoledì 15 novembre 2023
Chilometro dopo chilometro, nuovi sostenitori si aggiungono ai familiari dei 239 ostaggi che criticano Netanyahu. Verso l'intesa con Hamas, tregua e 50 liberi
In marcia da Tel Aviv a Gerusalemme per i rapiti. Mediazione in bilico
COMMENTA E CONDIVIDI

«Riportarli tutti a casa», gridano. E in quel «tutti» c’è il destino degli ostaggi e quello di un intero popolo. Perché il crimine di Hamas è riuscito a unire famiglie e comunità che un tempo si rivolgevano a malapena la parola. Adesso camminano insieme con le foto dei propri cari sulle t-shirt mentre a piedi percorrono i tornanti in salita da Tel Aviv a Gerusalemme. I mediatori del Qatar danno per cosa fatta il rilascio di un gruppo consistente. «Questione di ore», fanno sapere attraverso canali informali. Ma il timore che qualcosa faccia saltare il tavolo è fondato. L’intesa tra Hamas e Israele include la liberazione di circa 50 civili in cambio di un cessate il fuoco di tre giorni.

L’accordo in discussione, coordinato con gli Stati Uniti e raggiunto in Egitto, vedrebbe anche il rilascio da parte di Israele di alcune donne e bambini palestinesi detenuti e l’aumento della quantità di aiuti umanitari consentiti a Gaza. Hamas avrebbe accettato le linee generali del negoziato, ma Israele chiede di rivedere alcuni dettagli ancora non noti.

undefined

undefined - ANSA


Scavo

E, secondo il quotidiano Haaretz, i negoziati sarebbero in una fase di empasse. Le notizie non cambiano la tabella del popolo in cammino. Se venissero rilasciati 50, ne mancheranno ancora 190 «ed è troppo poco per fermare la marcia, ed è abbastanza per non smettere di sperare», dice Aaron che è partito da Tel Aviv martedì e vuole arrivare domani all’ufficio di Netanyahu e gli diranno che con la sua guerra casa per casa e i bombardamenti a tappeto sta mettendo a rischio la vita dei civili, «anche di quelli palestinesi», dirà una ragazzina giunta con il suo cagnolino e che non raccoglie troppi applausi. Vanno a passo lesto, raccogliendo sostenitori lungo la marcia. Hanno fretta di bussare alla porta di Benjamin Netanyahu. «Non c’è più tempo. E Bibi dovrà vederci, dovrà assumersi la responsabilità di quello che sta combinando», spiega Juliette mentre regola i bastoncini da trekking che gli serviranno quando le gambe cominceranno a cedere e domani all’alba gli ultimi chilometri saranno una via crucis e il fiato non basterà. «Gli ostaggi sono in pericolo di vita. Hanno bisogno di cure mediche urgenti. Non venite meno al vostro giuramento di medici, curateli subito», implorano rivolgendosi ai sanitari di Gaza casomai venissero in contatto con i civili prigionieri. C’erano anche i medici personali degli ostaggi, insieme ai loro familiari. Sharon Kleitman, medico di famiglia dei kibbutz Nir Oz ha detto che 78 dei suoi pazienti sono stati catturati 47 sono stati uccisi.

«Ci sono anziani che hanno bisogno di medicine, ma anche neonati e bambini». Poi, quasi in lacrime e alludendo ai governanti: «Aiutatemi ad aiutare i miei pazienti, sono la mia famiglia. Se non facciamo nulla, la responsabilità sarà anche nostra». Niva Wenkert, madre di Omer Vankret, pensa sempre a suo figlio e spera che le sue parole gli arrivino in qualche modo con il tono di una madre chi si fa forza e vorrebbe dirgli che andrà tutto bene. Raccoglie i capelli per sfuggire al caldo di mezzogiorno mentre l’autostrada viene bloccata e nessun automobilista si spazientisce. Suonano i clacson per sostenere la marcia e qualcuno insulta Netanyahu. «Omer è andato a una festa ed è stato preso», ripete Niva, che poi guarda dritto negli obiettivi dei reporter come stesse guardando negli occhi il suo ragazzo: «Omer siamo forti per te, resta forte per noi».

undefined

undefined - Scavo

All’altezza di Lod, quando la pianura è oramai alle spalle e gli uliveti sono troppo lontani dall’asfalto per guadagnare un po’ di ombra, arrivano di corsa gruppi di manifestanti dai villaggi circostanti. Si uniscono alla carovana che adesso è composta da oltre un migliaio di camminatori i quali sventolano le bandiere di Israele ma issano al cielo le foto degli ostaggi. La polizia li scorta in massa, e un anziano comincia a borbottare quando vede un agente che filma con il suo telefono i volti dei manifestanti. Lo scopo umanitario e il messaggio politico si alternano ad ogni passo. Inutile parlare di «due popoli in due Stati». Sull’autostrada che dalla pianura di Tel Aviv sale per 70 chilometri fino alle mura di Gerusalemme sfila un solo popolo.

undefined

undefined - Scavo


Scavo

E sono loro a dirlo. «Forse per la prima volta non mi sento un separato», dice un ragazzo con la kippa che cammina a fianco a dei coetanei arrivati da Ratah, la capitale dei beduini Alzadna di fianco a Gaza. Gente che lavora nei kibbutz e alla sera torna a casa. Non il 7 ottobre. «Per tutti questi anni abbiamo vissuto nella diffidenza, perché tante volte la politica e le leggi ci hanno trattato quasi come indesiderati. Ma oggi camminiamo insieme, perché i nostri cari sono prigionieri insieme». Tra gli ostaggi ci sono infatti anche musulmani, perché gli estremisti non fanno differenze. E poi tra i 239 catturati da Hamas ci sono anche lavoratori immigrati, come gli asiatici di servizio nelle famiglie prese d’assalto dai miliziani. Almeno 10 tra i prigionieri sono americani, la Thailandia ha rivisto a 17 il numero dei suoi cittadini tenuti in ostaggio. Erano tutti lavoratori nei Kibbutz assaltati da Hamas. Poi ci sono 16 argentini, almeno 7 britannici e altrettanti francesi e almeno un olandese. A questi si aggiungono quattro portoghesi-israeliani, una israelo-cilena catturata con il marito spagnolo e almeno due cittadini italo-israeliani. Il 16 ottobre, il braccio armato di Hamas ha dichiarato che i non israeliani rapiti erano «ospiti» che sarebbero stati rilasciati «quando le circostanze sul campo lo consentiranno».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: