giovedì 27 luglio 2023
Le misure su microchip, semiconduttori e batterie non hanno inceppato la produzione. Mosca ha saputo creare una rete di porte girevoli. Gli scambi esterni sono balzati dal 54% al 98%
Una fabbrica militare russa

Una fabbrica militare russa - Reuters

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Ci eravamo illusi: pensavamo di bloccare l’industria militare russa con una stretta tecnologica sui microchip, i semiconduttori e le batterie agli ioni di litio. Il primo semestre di embargo era sembrato addirittura promettente: c’erano stati inceppamenti nella produzione nemica di difese terra-aria, di carri armati (T-90 e T-14), di aerei radar (A-100) e di centrali di comando per navi da guerra.

Poi Mosca si è piano piano adattata. Ha sguinzagliato in tutta Europa l’intelligence militare (Gru) e quella per l’estero (Svr). Ha creato una rete di società fantoccio, con porte girevoli, importazioni clandestine, buoni intermediari e grosse somme di danaro.

Gli scambi russo-occidentali, fattisi indiretti, sono esplosi, balzando dal 54% del 2021 al 98% dell’ultimo scorcio del 2022. Il direttore dei servizi segreti olandesi, Jan Swillens, ha confidato tempo fa che nei Paesi Bassi c’erano decine di aziende irretite, spesso inconsapevolmente. Pochi i controlli. Le imprese non indagavano quasi mai sulla nazionalità dei committenti.

Stesso discorso per la Svizzera. Gli 007 e le dogane europee hanno subito reagito, inasprendo i controlli, purtroppo invano, perché i trasferimenti illeciti fluiscono sempre da Paesi insospettabili. Il Rusi britannico, il Wilson Center e l’European Policy Center concordano su un punto: le sanzioni euro-americane, pur godendo dell’extraterritorialità, impattano debolmente, perché gran parte del mondo continua a commerciare con la Russia.

Avviene così che la Turchia, la Georgia e gli Emirati importino hi-tech occidentale e poi lo rivendano a uomini d’affari russi. Siamo sicuri che i 100mila cittadini russi dotati di un permesso di soggiorno turco siano tutti semplici civili?

È solo un caso che l’export nordamericano di microchip e di batterie al litio stia andando a gonfie vele proprio in Turchia (+4.000%), negli Eau (+2.700%) e in Kazakhistan (+900%), autentiche porte girevoli dell’industria russa?

Ankara ha stretto da poco le maglie, ma Mosca, imperterrita, si è procurata subito un’alternativa: le Maldive, foriere di 400mila microchip nell’ultimo semestre (53 milioni di dollari), un numero secondo solo all’import russo dalla Cina.

L’embargo occidentale fa acqua da tutte le parti. Per avere successo, le nostre sanzioni dovrebbero bloccare qualsiasi trasferimento oltre i confini nazionali, contravvenendo alle leggi del mercato. Risultò impossibile anche durante la Guerra fredda. Il Comitato di coordinamento per il controllo multilaterale delle esportazioni si rivelò impotente perfino allora e constatò che l’Armata Rossa stava combattendo in Afghanistan con materiali in parte europei.

Per un istituto di Colonia che monitorava i rapporti fra le due Germanie, il 70% delle armi del patto di Varsavia integrava tecnologie rubate o copiate. I vettori SS-20 ne erano un buon esempio: il giroscopio delle 3 testate era costruito con apparecchiature del Vermont. La struttura in carbonfibra della punta conica proveniva dal New Jersey, mentre i veicoli di lancio erano disegnati con software del Mit di Boston e computer Ibm di New York.

Oggi è lo stesso. A inizio luglio, il Gruppo di lavoro internazionale che monitora il rispetto delle sanzioni ha detto che sono impelagate nei traffici tecnologici con il Cremlino almeno 155 società mondiali. I traffici sarebbero così copiosi che Mosca sarà in grado di raddoppiare la produzione missilistica, portandola a più di 1.000 unità l’anno.

La storia economica sconfessa la pratica delle sanzioni. Le uniche funzionali furono quelle contro il Sudafrica dell’apartheid, perché applicate su scala mondiale. L’embargo ha invece fallito contro Cuba, contro l’Iraq di Saddam Hussein, contro l’Iran post-rivoluzionario e contro la Siria di Assad.

Agathe Demarais, direttrice del ramo previsioni mondiali all’unità di intelligence dell’Economist, si dice però confidente: «con l’Iran ci sono voluti dieci anni di embargo per far sedere il regime al tavolo sul nucleare». Perché non dovrebbe funzionare anche con la Russia? L’undicesimo pacchetto di sanzioni europee, risalente a giugno, va nella direzione auspicata dalla Demarais. Anche se non include nella lista molte aziende cinesi.

Già prima della guerra, Pechino era il principale fornitore di Mosca in fatto di componenti elettroniche, apprezzate soprattutto dall’industria civile più che dai militari, legati ai prodotti occidentali, di miglior qualità. Varrà ancora in futuro? Dal 2015, la Cina investe massicciamente nella ricerca tecnologica. Baderà però ai propri bisogni interni prima di soddisfare l’industria bellica russa, che si sta già muovendo per ovviare a carenze future. Nell’aprile 2022 quest’ultima ha annunciato un piano di investimento tecnologico da 38,6 miliardi di dollari. Gran parte dei soldi andrà alle componenti hi-tech e alla formazione di talenti nazionali. Sono previsti pure programmi di reingegnerizzazione, un copia e incolla di prodotti altrui, per certi versi illegale, visto che vigono brevetti.

Ma Mosca non punta a primati. Cerca solo di ridurre la dipendenza dalle catene valoriali internazionali e di sottrarsi alla stretta delle sanzioni, per farsi autarchica anche nell’alta tecnologia, viatico di forze armate e industrie all’avanguardia.


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