martedì 23 maggio 2023
Nel 2004 un bambino di 4 anni venne ucciso da un Qassam a Sderot. Un giovane ricercatore militare cominciò a inseguire il sogno di un dispositivo di difesa aerea. Oggi è realtà
Iron Dome in azione al confine tra Israele e Gaza

Iron Dome in azione al confine tra Israele e Gaza - Reuters

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Nel giugno del 2004 Afik Ohayon aveva quattro anni e stava andando all’asilo con la mamma che lo teneva stretto per mano. Erano a Sderot, la cittadina nel sud di Israele – poco più di un chilometro dal confine Nord di Gaza – costantemente sottoposta alla minaccia dei Qassam lanciati dalla Striscia. Dal 2001 il sindaco, Eli Moyal, si rivolgeva con tenacia al governo (il premier era Ariel Sharon), ai media, all’opinione pubblica chiedendo protezione, una soluzione. Ma la Seconda Intifada insanguinava le strade, il confine nord, quello con il Libano, impegnava risorse. Sderot non era una priorità. E Hamas migliorava potenza e gittata dei razzi.

«Mi sono ritrovata sdraiata per strada. Non capivo cosa fosse successo. La gente urlava, mi faceva male una gamba. Non vedevo Afik. Poi un uomo davanti a me si è spostato. E lui era lì, a terra. Aveva solo una piccola cicatrice sulla fronte, gli occhi chiusi. Sembrava dormisse». Ruthi Zehavi ha raccontato la perdita di suo figlio, colpito da un Qassam, nella docu-serie «Iron Dome» prodotta da Nati Dinnar e Uri Bar-On (piattaforma Izzy). La morte del piccolo Afik segnò per sempre la sua vita. Ma tracciò anche una linea rossa per la comunità di Sderot. E si infilò come una spina nel cuore di un giovane brigadiere generale nel ministero della Difesa: Daniel Gold.

Daniel Gold, 61 anni

Daniel Gold, 61 anni - Archivio

Di origini ungheresi, figlio di due sopravvissuti all’Olocausto, Danny Gold dal 2000 era a capo del dipartimento Ricerca e sviluppo del ministero della Difesa. «Non sapevo cosa avrei fatto, ma sapevo che qualcosa dovevo fare», ha raccontato. La sua idea era quella di impedire ai Qassam di arrivare a terra. Bisognava intercettarli, selezionarli e distruggerli in volo con un missile anti-missile estremamente preciso. Il tutto in una manciata di secondi (avendo a che fare con razzi a corto raggio) e senza fare danni: la lezione del 1991, quando i Patriot forniti dagli americani per contrastare i lanci di Saddam Hussein finivano per ricadere su suolo israeliano, causando molti più problemi degli stessi Scud iracheni, era stata sufficiente.

Sembrava anche piuttosto chiaro che un semplice sistema di allarme non poteva funzionare. Qualcosa del genere c’era già: un’allerta “Alba Rossa”, poi diventata “Colore rosso”, che veniva diffusa da potenti altoparlanti appena un razzo partiva da Gaza: avvisava la gente di Sderot e delle cittadine del Sud di andare nei rifugi, il sistema funzionava, ma il tempo tecnico per mettersi al riparo era di soli 15 secondi. Improponibile per una mamma con tre bambini, per un anziano, Serviva qualcosa di molto più efficace, di più preciso, di più avanzato.

Il fatto è che il progetto di Danny Gold lo era fin troppo: troppo nuovo, troppo eccentrico, troppo sperimentale, troppo costoso. Incontrò resistenze negli apparati della Difesa, nel governo, rivalità americane. Ma Gold non si stancò mai di credere nella sua intuizione. Ci sono voluti molti anni e molti morti, dopo Afik, prima che qualcuno gli venisse incontro.

Il primo a porgere la mano fu Amir Peretz, che il problema dei Qassam ce l’aveva ben presente: era diventato ministro della Difesa del governo Olmert dopo essere stato sindaco di Sderot per cinque anni. Arrivarono i finanziamenti. E il progetto di Gold cominciò ad assumere tridimensionalità nei laboratori della Rafael Advanced Defence System. Chiunque avesse qualcosa da dire, da proporre, veniva convocato e ascoltato. Ogni idea valutata. Si pensò a un nome per il sistema: Cupola d’oro, ma suonava pretenzioso. Si scelse Iron Dome, Cupola di ferro, Kipat Barzel in ebraico. Fu dato un nome anche ai missili: Tamir, acronimo di Til Meyaret, missile intercettore. Nel 2006, dopo migliaia di attacchi da parte di Hezbollah, Israele decise dotarsi del nuovo dispositivo di difesa. L’Amministrazione Obama garantì un supporto di 225 milioni di dollari. Nel marzo del 2009 Iron Dome fece il suo primo lancio. E nel marzo del 2011 entrò in servizio. Nei giorni scorsi ha intercettato il 95% degli oltre mille razzi sparati da Gaza.

Una batteria di Iron Dome dispiegata in Israele

Una batteria di Iron Dome dispiegata in Israele - Ansa

Il sistema, trasportabile e “ognitempo” (funzionante sia di giorno che di notte e in qualsiasi condizione atmosferica), è composto da tre elementi: un radar di scoperta e tracciamento, un sistema di controllo del combattimento (la centrale in cui operano fisicamente i militari) e un’unità di lancio missili. Una batteria include in genere tre lanciatori piazzati su un camion. Ogni lanciatore porta 20 Tamir. Ci sono una decina di batterie distribuite sul territorio israeliano. Il sistema costa: 100 milioni di dollari ogni batteria, 50mila ogni singolo Tamir. Ma salva migliaia di vite. In modo intelligente, perché Iron Dome entra in azione solo quando i razzi minacciano i centri abitati, ignora gli altri (è questa la prima delle sue qualità).

I Tamir disegnano traiettorie curve in cielo poi improvvidamente si impennano, inseguono qualcosa, colpiscono e disintegrano, dentro un rumore sordo che gli israeliani conoscono fin troppo. La gente conta sull’efficacia del dispositivo. Sanno che non è infallibile. Sanno che esiste il rischio di saturazione, quando il barrage è troppo intenso. Sanno anche che il Paese è dotato di una rete estremamente capillare di rifugi (governo e municipalità mettono a disposizione mappe e indicazioni) in cui recarsi quando richiesto: un “apparato di sicurezza” complementare affidato al buon senso dei singoli. Quasi tutte le abitazioni private più nuove, quelle costruite dopo la Guerra del Golfo del 1991, sono dotate di mamad (acronimo di merchav mugan dirati: spazio protetto nell’appartamento): una stanza rinforzata, di cemento armato, che può essere una camera da letto, uno studio. Poi ci sono rifugi condominiali e rifugi pubblici, affidati a personale che li apre quando necessario. Se suonano le sirene, tutti sanno cosa fare, dove andare. Gli allarmi vengono presi sul serio, ma quasi nessuno ha paura. «Siamo abituati», si ritrovano a dire con amarezza gli israeliani. «Qui è così».

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