lunedì 6 agosto 2018
Reportage dal Nord Iraq. Un maldestro attacco al governatorato ha riaperto le ferite. Ma più di tutto ha rivelato le fragilità della zona autonoma dei curdi, segnata dalla recessione economica
L'ombra del Daesh sul Kurdistan, riaffiora la grande paura
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È un monito, per Sulaymaniya, non un’emergenza. Nella notte due pick-up dell’Asaysh sfrecciano per Salim street a sirene spiegate, tre uomini seduti per ogni lato del cassone e uno verticale a impugnare la mitragliatrice. Insieme agli altri istituti militari e di polizia, la sicurezza è chiamata a prender parte a una piccola elencazione che ricordi nel cortile del centro distrettuale a chi appartenga il legittimo monopolio della forza. I passanti osservano senza sostare il formarsi del plotone eterogeneo, l’arringa dell’ufficiale.

Nonostante i tre anni di guerra al Daesh, proclamato sconfitto dal primo ministro iracheno Abadi in dicembre, la Regione autonoma del Kurdistan era stata sorpresa dal terrore solo in due occasioni.

Identici il palcoscenico e i protagonisti: Erbil, i cadetti del Califfato in espansione. Nell’aprile 2015 un’autobomba aveva ucciso tre persone davanti al consolato americano. Quattro i morti cinque mesi prima, quando una macchina si era lanciata contro il check-point del Governatorato provinciale. È proprio qui che due settimane fa la paura si è ripresentata alla capitale, e poi a tutta la regione. E il giorno dopo, sulla lunga strada che attraversa le montagne bruciate dal sole, le automobili dirette a Erbil si sono accumulate davanti ai check-point. Anche due studentesse, per la prima volta in una vita da pendolari, sono state accuratamente perquisite.

«È cominciato tutto poco dopo le sette del mattino. Mio fratello mi ha svegliato con una telefonata e insieme abbiamo seguito l’attacco in televisione. A mezzogiorno era tutto finito. Per me erano solo tre pazzi», racconta Ibrahim, giovane proprietario di un negozio di ottica che si affaccia sul punto di accesso al Governatorato. Qui una decina fra poliziotti e peshmerga entrano ed escono dalla garitta, sulla quale poggia incongruo un vecchio divano. Poco più di ventiquattr’ore prima tre ragazzi fra i 16 e i 18 anni, smagriti e calzati di sandali, ferivano l’agente di guardia, sparando all’intorno e penetrando nel giardino deserto fino all’entrata principale.

Sono pochi passi, e la nuova ridondante armata all’ingresso concede il passaggio. All’interno, sei uomini con il fucile in grembo sonnecchiano a protezione della grande porta a vetri, andata in frantumi. Nelle immagini riprese dal sistema di sorveglianza i giovani commando entrano con due pistole e il Kalashnikov sottratto alla sentinella. Girano poi incerti per i corridoi, prima che il video concesso dalla polizia si concluda. Secondo la versione ufficiale i tre, originari di Erbil, avrebbero preso in ostaggio il garzone del tè, e atteso l’arrivo delle truppe speciali. Cinque soldati rimarranno feriti, mentre Farhan Elya, cristiano di 53 anni e padre di tre, morirà nello scontro a fuoco.

La spietata incursione sarebbe stata resa necessaria dall’arsenale degli assalitori: una cintura esplosiva puntualmente deflagrata secondo le prime testimonianze, granate lanciate contro le teste di cuoio per Tariq Nouri, direttore dell’Asaysh. Il capo della sicurezza ha associato i tre ragazzi al sedicente «Stato Islamico», sostenendo che sotto i cenci mostrati dalle telecamere nascondessero le uniformi del Daesh.

Inutile insistere sulla soglia. L’ufficiale convocato dai soldati spiega gentilmente che è impossibile salire al primo piano, dove lo scontro letale e le esplosioni avrebbero avuto luogo: «Dopodomani, quando saranno presenti, e pronti a rispondere a qualsiasi domanda, il governatore e il capo della sicurezza». «L’opinione diffusa è che sia stata una sceneggiata messa in piedi per spaventare il popolo, o un regolamento di conti interno alla famiglia Barzani e al Pdk», spiega Beniamin, che ha appena concluso le abluzioni nello spiazzo della grande moschea Hajr Salih Dabagh, a pochi metri dal Governatorato.

«Il movimento salafita esiste in Kurdistan, ma non ha mai abbracciato le pratiche violente». Se la natura del maldestro attacco di lunedì rimane incerta, limpidi e strutturali sono i pericoli che assediano la Regione autonoma. Il sogno dell’indipendenza, vivo fin dai tempi del mandato britannico, si è rovesciato nell’ottobre 2017, quando in risposta al referendum voluto soprattutto dal Pdk l’esercito iracheno è tornato a presenziare tutti i confini del Kurdistan, soprattutto i territori contesi conquistati dai peshmerga nella lotta al Daesh, mille chilometri lungo la linea che va dall’Iran alla Siria.

La Regione è stata così riassorbita nel caos dello Stato iracheno: un “Frankenstein” coloniale di etnie, religioni e oligarchie che, schiacciato dalle ingerenze delle potenze regionali, stenta oggi a trasformare le elezioni di maggio, segnate dai brogli, in una maggioranza di governo. Da Bassora a Baghdad centinaia di migliaia di manifestanti hanno preso le strade chiedendo elettricità, acqua e lavoro, mentre Stato Islamico regredito alla forma cellulare delle origini colpisce con i modi del terrorismo repentino e invisibile.

Un milione e mezzo di rifugiati siriani e iracheni, non convinti dai proclami vittoriosi, aspetta nel piccolo grembo del Kurdistan, schiacciato dalla propria generosità. È questa osmosi del disordine a minacciare ciò che fino al 2014 era stata una piccola oasi di sviluppo, pur nelle distorsioni imposte da un antico sistema tribale, intrecciato al faticoso processo di costruzione dello Stato. Governo e Parlamento regionale hanno cessato di lavorare regolarmente nel 2015. Le elezioni previste per il 30 settembre, unica occasione per i partiti emergenti di arrivare al potere, sono appese a un filo. Nel vuoto istituzionale sono i partiti tradizionali come il Pdk e l’Upk, cui afferiscono esercito e burocrazie, a rimanere in controllo.

«Fino a pochi anni fa gestivo sette punti vendita in città, ora ne ho solo due» racconta Kawa, proprietario di un negozio di software che guarda al palazzo del governatorato. «La crisi economica è terribile. Vorrei vivere in un Paese efficiente, ma qui lo Stato non esiste. Risparmio per portare mia moglie e i miei due figli in Europa. Là se hai voglia e capacità tutto è possibile».

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