giovedì 13 ottobre 2022
Dagli avvocati agli operai, i lavoratori hanno aderito allo sciopero generale e hanno manifestato con lo slogan: «Donna, vita, libertà». La repressione non si ferma: 5 anni al riformista Tajzadeh
Immagine tratta da un video degli studenti di Teheran che sono scesi in piazza

Immagine tratta da un video degli studenti di Teheran che sono scesi in piazza - Ansa

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«Donna, vita, libertà». Ancora una volta, il grido è risuonato forte nelle piazze a un mese esatto dall’arresto di Mahsa Amini per «abbigliamento inappropriato». La morte della 22enne, tre giorni dopo, il 16 settembre, ufficialmente «per un attacco di cuore» – tesi fermamente respinta da familiari e attivisti – è stata la scintilla dell’incendio che continua a bruciare l’Iran. Anzi, settimana dopo settimana, il rogo si allarga. Fino a coinvolgere i vari settori produttivi. Dagli avvocati ai venditori dei bazar, dagli insegnanti agli operati e perfino gli addetti agli impianti petroliferi, il mondo del lavoro ha partecipato compatto allo sciopero generale di ieri. Oltre ad astenersi dal lavoro, tanti hanno cercato di manifestare ma i raduni sono stati dispersi dalle forze di sicurezza. A Teheran, queste ultime hanno lanciato lacrimogeni contro i dimostranti.
A Zehedan, nella provincia di Sistan-Baluchistan, e Sanandaj, in Kurdistan, dove Mahsa è nata, Mashhad, Esfahan, Rasht, Kerman, Chabahar, Karaj e Sanandaj ci sono stati scontri con gli agenti. Avere informazioni attendibili, tuttavia, è difficile a causa del black-out di Internet messo in atto dalle autorità. Anche il bilancio delle vittime della repressione è incerto. L’Iran Human Rights (Ihr) parla di 201 morti in tre settimane di raduni, tra cui 23 bimbi e adolescenti. Questi ultimi sono sono, inoltre, bersaglio di retate violente, come sostiene il direttore della Ong, Mahmood Amiry-Moghaddam. Finora 125 persone sono in attesa di processo per aver partecipato alle rivolte: sessanta di questi provengono dall’area di Teheran, il resto dalla zona di Hormozgan. «Agenti nemici e qualche esaltato», li ha definiti la Guida suprema, Ali Khamenei, che è tornato sulla questione delle proteste, dopo un lungo silenzio, interrotto il 3 ottobre. In un incontro con i propri consiglieri, il leader ha sostenuto di avere la conferma «del coinvolgimento dei nemici in queste rivolte di strada. Le azioni del nemico, come la propaganda, gli intenti di influenzare le menti, esacerbare le persone, incoraggiare e perfino insegnare la fabbricazione di materiale incendiario, sono ora completamente chiare». A differenza delle volte precedenti, Khamenei non ha citato espressamente Usa e Israele, ma è evidente che intendeva loro. Su Twitter, inoltre, l’ayatollah ha introdotto un distinguo per giudicare i partecipanti. Per gli «esaltati» «è necessario un lavoro culturale», mentre per i «nemici» «i funzionari della magistratura e della sicurezza devono fare il loro dovere». In effetti, alcuni studenti arrestati sono tenuti in centri per il trattamento psicologico, come ha confermato il ministro dell’Educazione, Yousef Nouri. «Quando i loro aspetti anti-sociali saranno rimossi, saranno corretti e liberati», ha spiegato il titolare. Incapace finora di stroncare la protesta, il regime ha intensificato il pugno di ferro. Lo dimostra anche la dura condanna inflitta al leader riformista, Mostafa Tajzadeh, già imprigionato per sette anni in seguito alla rivolta di piazza contro la rielezione dell’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad. Arrestato l’8 luglio scorso, all’ex ministro del governo di Mohammad Khatami, sono stati comminati 5 anni di carcere per «complotto contro la sicurezza dello Stato». Tajzadeh, la cui candidatura alle scorse presidenziali è stata bocciata dal Consiglio dei guardiani, ha rifiutato di difendersi dopo che il giudice gli ha negato la possibilità di consultarsi in privato con il proprio legale.

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