domenica 30 agosto 2009
Oltre 2,7 milioni di chilometri quadrati colpiti dalla calamità, a rischio anche le fasce a ridosso dell’Himalaya. In poche settimane 165 contadini dell’Andhra Pradesh si sono suicidati per i debiti. In Punjab e Haryana, granai del Paese, il panorama desolato contrasta con i paesaggi verdeggianti tipici della stagione: si è seminato il 20% in meno di riso.
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L'India che ad anni alterni ha realtà o velleità di Paese esportatore di riso, l’India che investe massicciamente sulle risorse agricole a fine commerciale nella lontana Africa, l’India che ha una popolazione di 1,1 miliardi di abitanti, al 70 per cento dipendenti dall’agricoltura, è oggi una Paese alla sete, con la prospettiva di tornare ad essere un Paese della fame. E in certe zone la paura si è già trasformata in disperazione. Mercoledì scorso, nel Parlamento dello Stato meridionale di Andhra Pradesh, il leader dell’opposizione ha comunicato che nelle ultime settimane almeno 165 contadini si sono suicidati per i debiti contratti per far fronte alla siccità in uno Stato che – in linea con la media nazionale – ha una popolazione al 40 per cento legata indissolubilmente alle piogge per la propria sopravvivenza. Non una novità, purtroppo, ma una costante che accompagna – oggi con numeri crescenti – le crisi idriche come anche le maggiori alluvioni.Nel gigante asiatico, si assiste attualmente alla concomitanza di due fenomeni in evoluzione. Il primo è una diversa intensità di precipitazioni che dipende dai cambiamenti climatici in atto, il secondo una crescente desertificazione da imputare allo sfruttamento antico dei suoli e delle acque come a una inadeguata pianificazione del loro uso. I granai dell’India, Punjab e Haryana presentano un panorama desolato in contrasto con i paesaggi verdeggianti tipici della stagione, in tutta la nazione si è seminato riso su una superficie del 20 per cento inferiore a quella abituale, mentre piogge torrenziali colpiscono il Nord-Est e, a macchia di leopardo, altre regioni, affondandole nell’acqua e nel fango. Fenomeni entrambi che avranno un impatto decisivo sui prossimi raccolti, ma che già ora stanno rendendo impossibile la vita di milioni di abitanti. La scarsità d’acqua in particolare, il fenomeno che appare più strutturale. Sono 2,7 milioni di chilometri quadrati i territori maggiormente a rischio nel Subcontinente indiano, una fascia sub-himalayana che include la regione indo-gangetica. Qui le rilevazioni satellitari hanno registrato una riduzione media di 10 centimetri delle acque superficiali. Un dato che ha una ricaduta drammatica sull’approvvigionamento delle falde e dei pozzi. Questa situazione è stata ulteriormente chiarita da uno studio pubblicato il 10 agosto dal Science Now Daily News che riporta, tra l’altro, i dati della missione satellitare Grace (Gravity Recovery and Climate Experiment) lanciata nel 2002 su iniziativa congiunta della statunitense Nasa e del Centro aerospaziale tedesco. Le misurazioni delle variazione della gravità terrestre hanno mostrato le dimensioni dell’impoverimento delle risorse idriche su una fascia di 2.000 chilometri tra il Pakistan settentrionale e il Bangladesh, in una regione che ospita 600 milioni di abitanti, tradizionalmente tra le più assetate del pianeta. Molte le cause naturali di un fenomeno di tale entità, ma occorre puntare il dito anche sull’industrializzazione, l’urbanizzazione accelerata, la gestione dei suoli e delle acque che stenta a tramutare i già deboli risultati delle assise internazionali in fatti che fermino la febbre delle campagne indiane.Paese dall’antica tradizione irrigua, in buona sostanza l’India continua a pensare all’acqua come a una risorsa proveniente da due fonti inesauribili: le piogge monsoniche e i suoi grandi fiumi. Un approccio, se mai è stato valido, da tempo superato. Come sottolinea un rapporto del Centro per la scienza e per l’ambiente, un’istituzione privata indiana di studi e di iniziative ambientali, «attualmente le fonti di approvvigionamento sotterraneo, che sono essenziali nella maggior parte dell’India rurale e urbana, sono trattate come una fonte di irrigazione secondaria. Poco è investito nello scavo e nella manutenzione dei pozzi, ancora meno nel garantire la qualità dell’acqua che contengono. Sono i classici buchi neri, da cui estrarre senza fine, senza valorizzarli».
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