venerdì 8 aprile 2022
Sono 16 le guerre escluse dall’agenda mediatica: record all’Africa ma l’America Latina è la più violenta. Spiragli di soluzione in Yemen, Tigrai e Nagorno Karabakh
In un mondo da sempre in conflitto la pace spunta lo stesso in tre Paesi
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Nel 2020, ogni giorno, 223 persone sono state uccise da uno dei 169 conflitti che dilaniavano il pianeta. E che lo dilaniano ancora, nell’invisibilità globale, anche se i numeri dell’autorevole “Uppsala conflict data program” non sono ancora disponibili. Guerre a intensità variabile, sempre meno combattute fra Stati rivali e sempre più da attori non convenzionali. Nel mondo post-Guerra fredda, si è prodotto un progressivo abbassamento della soglia bellica, tanto da includere gruppi privati, siano essi mafie transnazionali o reti terroristiche. Il “war market” (mercato della guerra) si è fatto, dunque, oltremodo competitivo. E si è strutturato su più livelli, a seconda dell’intensità dello scontro. In genere, più il conflitto è lungo, più il suo andamento procede per picchi e pause. A farne le spese sono soprattutto i civili.

Oltre due miliardi di esseri umani, un quarto dell’umanità, vivono in aree colpite dalla temperie bellica, ha ricordato, appena qualche giorno fa, il segretario generale dell’Onu, António Guterres. Sulle loro spalle pesa non solo il macigno delle violenze dirette. I superstiti patiscono per anni o anche decenni le conseguenze della temperie bellica in un susseguirsi di “generazioni perdute”. I costi umani, sociali, politici ed economici sono enormi.

Eppure, per prevenire i conflitti gli Stati investono poco più di un quinto di quanto spendono per la difesa, ovvero 349 miliardi contro circa duemila miliardi nel 2020. Già prima dell’invasione russa dell’Ucraina, parafrasando Jan Egeland, segretario generale del Consiglio norvegese per i rifugiati, dunque, «la sofferenza globale inflitta dalla guerra aveva raggiunto livelli senza precedenti ». Lo sa fin troppo bene l’Africa, il Continente con più conflitti censiti: il 70 per cento di quelli totali. E il loro numero cresce pur mimetizzandosi ora nella raffica di colpi di stato che hanno caratterizzato l’ultimo biennio. Unito al cambiamento climatico, effetto dell’instabilità ha provocato una tragica carestia che condanna alla fame 346 milioni di donne e uomini, il oltre 60 milioni in più rispetto all’anno scorso. All’estremo opposto si colloca l’America Latina che, con la fine del pluridecennale scontro civile colombiano nel 2016, ufficialmente, si è lasciata la stagione bellica dietro le spalle.

L’immenso territorio tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco è, tuttavia, il più violento al mondo: là, dove risiede l’8 per cento della popolazione del globo, si concentra un terzo degli omicidi segno che la pace latinoamericana è, in realtà, un miraggio. L’eredità bellica e la feroce diseguaglianza hanno determinato il dilagare di una serie di conflitti anomali, difficilmente classificabili in base ai canoni tradizionali, come dimostrano la narco-guerra in Messico – con 350mila morti ammazzati e 100mila desaparecidos dal 2006 –, la strage degli attivisti in Colombia, l’anarchia di Haiti. Il Medio Oriente è, da decenni, al centro della mappa bellica e, come l’Asia, è teatro di crisi storiche mai risolte, a ciclica esplosione. Un filo rosso unisce questo caleidoscopio di guerre, dall’Afghanistan al Myanmar: la rimozione collettiva. Sono conflitti nemmeno dimenticati, semplicemente per l’agenda mediatica mainstream non esistono. Vengono, letteralmente, tagliati fuori dalla mappa dell’informazione.

E, di conseguenza, dai radar della politica. Gli appelli lanciati dall’Onu per assistenza umanitaria in Myanmar e in Sud Sudan hanno raggiunto a malapena l’8 per cento della somma richiesta. Due analoghe richieste formulate per la crisi ucraina – caratterizzata da un’overdose di notizie – per un totale di 1,7 miliardi di dollari sono state finanziate in ventiquattro ore. Eppure proprio Kiev dovrebbe averci insegnato che, in un mondo globalizzato, conflitti considerati minori rischiano di deflagrare in crisi internazionali. Il Donbass docet. Oltretutto la bulimia mediatica, nel lungo periodo, è pericolosa perché l’informazione “mordi e fuggi” salta di emergenza in emergenza sull’onda dell’emozione. L’Ucraina potrebbe essere ricacciata nel cono d’ombra nel momento forse più delicato, quello della ricostruzione post-bellica. Non sono solo le guerre ad essere invisibili.

Anche le paci, spesso, vengono oscurate. Sta accadendo proprio in questo tempo convulso in cui tre nodi geopolitici stanno venendo al pettine. Nello Yemen sconvolto dalla peggiore emergenza dalla Seconda guerra mondiale, dopo lo stop alle ostilità per il Ramadan, il capo del governo sostenuto da Riad, Abedrabbo Mansour Hadi, ha trasferito i poteri al nuovo consiglio. Un passo importante nei confronti dei ribelli Houthi, supportati dall’Iran, a sua volta ansioso di mostrare la propria buona volontà all’Occidente in vista dell’accordo sul nucleare. Anche nel Tigrai in lotta con l’Etiopia è stata avviata la tregua umanitaria. Il proposito è alleviare la tragica carestia. Non si escludono, però, implicazioni politiche. Un effetto collaterale del fuoco di Kiev, infine, è l’inizio dei negoziati sul Nagorno- Karabakh tra Armenia e Azerbajan, longa manus – nell’ottica della “proxy war” di Russia e Turchia, ora in fase di distensione.

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