martedì 20 aprile 2021
Il Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo 2021, pubblicato dalla fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre: i numeri, gli approfondimenti, le storie

In 26 Paesi del mondo la libertà religiosa è soffocata dalla persecuzione. Lo afferma il Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo 2021, pubblicato dalla fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) e giunto alla sua XV edizione. In particolare viene evidenziato che in una nazione su tre si registrano gravi violazioni della libertà religiosa. Secondo lo studio, presentato a Roma e in altre grandi città in tutto il mondo, questo diritto fondamentale non è stato rispettato in 62 dei 196 Paesi sovrani (31,6% del totale) nel biennio 2018-2020.

Una protesta tenutasi a Calcutta, in India, il 18 gennaio 2020, contro la legge di modifica della cittadinanza, approvata dal Parlamento indiano nel dicembre 2019.

Una protesta tenutasi a Calcutta, in India, il 18 gennaio 2020, contro la legge di modifica della cittadinanza, approvata dal Parlamento indiano nel dicembre 2019. - Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS)

«In 26 di queste nazioni si soffre la persecuzione», dichiara Alessandro Monteduro, il direttore di ACS Italia.

«Nove Paesi per la prima volta si sono aggiunti alla lista: sette in Africa (Burkina Faso, Camerun, Ciad, Comore, Repubblica Democratica del Congo, Mali e Mozambico) e due in Asia (Malesia e Sri Lanka). La causa principale è la progressiva radicalizzazione del continente africano, specie nelle aree sub-sahariana e orientale, dove la presenza di gruppi jihadisti è notevolmente aumentata», prosegue Monteduro.

Violazioni della libertà religiosa si sono verificate nel 42% delle nazioni africane. Burkina Faso e Mozambico rappresentano due casi eclatanti.

«Questa radicalizzazione non si limita tuttavia all’Africa. Il Rapporto - sottolinea Monteduro - descrive il consolidamento di un network islamista transnazionale che si estende dal Mali al Mozambico, dalle Comore nell’Oceano Indiano alle Filippine nel Mar Cinese Meridionale, il cui scopo è creare un sedicente califfato transcontinentale».

Asia Bibi, la cittadina pakistana di fede cattolica che ha trascorso quasi dieci anni in carcere nel braccio della morte con l'accusa di blasfemia e che oggi vive in Canada, sarà a Roma nelle prossime settimane insieme alla sua famiglia. Lo ha
annunciato Alessandro Monteduro, direttore della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre, nel corso della conferenza stampa di presentazione del rapporto sulla libertà religiosa di Acs. "Spero di venire a Roma presto", ha confermato Asia Bibi intervenuta in videoconferenza alla presentazione della XV edizione del rapporto sulla libertà religiosa nel mondo. "Spero di poter incontrare entrambi i papi, Benedetto XVI e Francesco, che mi hanno sostenuto e
hanno fatto appello per la mia liberazione
", ha aggiunto Asia Bibi.

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Intervenendo in videoconferenza dal Canada, dove vive insieme alle due figlie e al marito, all'evento organizzato dalla fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre per la presentazione della XV edizione del rapporto sulla libertà religiosa nel mondo, Asia Bibi ha chiesto "alla comunità internazionale e alle autorità in Pakistan di far rispettare il diritto alla libertà religiosa".
Ricordando "il sacrificio" di Shahbaz Bhatti, il ministro pakistano per le Minoranze religiose ucciso dopo averle fatto visita in carcere, Asia Bibi parla della legge sulla blasfemia come di una "spada nelle mani della maggioranza del Paese, composta per il 95 per cento da musulmani. Noi cristiani siano perseguitati da questa legge del codice penale pakistano". Asia Bibi ha quindi voluto denunciare come in Pakistan "ragazze minorenni, di età tra i 9 e 14 anni, vengono convertite a forza all'Islam dopo essere state rapite da ragazzi musulmani, violentate e date in matrimonio ai loro rapitori. Lo stesso giorno del rapimento e della violenza sessuale succede la
conversione".

In 42 Paesi (21% del totale), abbandonare o cambiare la propria religione può determinare gravi conseguenze legali e/o sociali, con uno spettro di possibili conseguenze che va dall’ostracismo familiare alla pena di morte. La relezione di ACS denuncia anche l’incremento della violenza sessuale impiegata come un’arma contro le minoranze religiose, in particolare i crimini contro donne adulte e minorenni le quali vengono rapite, violentate e costrette a ripudiare la loro fede per abbracciare coattivamente quella maggioritaria.
Il 67% circa della popolazione mondiale, pari a circa 5,2 miliardi di persone, vive attualmente in nazioni in cui si verificano gravi violazioni della libertà religiosa. Fra di esse vi sono quelle più popolose: Cina, India e Pakistan.
Anche la persecuzione religiosa da parte dei governi autoritari si è intensificata. La promozione della supremazia etnica e religiosa in alcune nazioni asiatiche a maggioranza indù e buddista ha contribuito a intensificare l’oppressione ai danni delle minoranze, riducendone spesso i componenti a livello di cittadini di seconda classe. L’India rappresenta il caso più eclatante, ma tali politiche vengono applicate anche in Pakistan, Nepal, Sri Lanka e Myanmar.
In Occidente si registra una diffusione della “persecuzione educata”, secondo l’espressione coniata da Papa Francesco per descrivere il conflitto fra le nuove tendenze culturali e i diritti individuali alla libertà di coscienza, conflitto a causa del quale la religione viene relegata nel ristretto perimetro dei luoghi di culto.

Covid-19: l’impatto sulla libertà religiosa nel mondo

Soldati ugandesi della missione dell’Unione Africana liberano Kurtunwaarey in Somalia dal gruppo terroristico Al Shabaab, il 31 agosto 2014.

Soldati ugandesi della missione dell’Unione Africana liberano Kurtunwaarey in Somalia dal gruppo terroristico Al Shabaab, il 31 agosto 2014. - Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS)

Il Rapporto fa cenno anche al profondo impatto della pandemia da COVID-19 sul diritto alla libertà religiosa.
Senza distinzioni di razza, colore o credo, la pandemia ha lacerato il tessuto della salute pubblica e ha sconvolto le pratiche tradizionali nell’economia globale, così come i governi, spesso con profonde implicazioni per i diritti umani, incluso quello della libertà religiosa. L’impatto della pandemia non ha soltanto rivelato le debolezze di fondo della società, ma in molte aree del mondo ha esacerbato le fragilità esistenti derivanti da povertà, corruzione e strutture statali vulnerabili.
Diversi governi africani, sopraffatti dalle sfide poste dall’imperversare della pandemia, hanno impegnato forze militari e di sicurezza per sostenere i bisogni sanitari della popolazione in generale. Soprattutto nei primi mesi, gruppi terroristici e jihadisti hanno approfittato della distrazione dei governi per aumentare i propri attacchi violenti e consolidare le proprie conquiste territoriali.

La pandemia è stata anche usata dai gruppi estremisti per reclutare nuovi membri. Numerose pubblicazioni di propaganda su internet di Al-Qaeda, Daesh (Stato Islamico) e Boko Haram hanno descritto il COVID-19 come una punizione di Dio per «l’Occidente miscredente», hanno promesso immunità contro il virus e assicurato un posto in paradiso ai jihadisti. In tutta la regione del Sahel, dal Mali al Burkina Faso, dal Niger alla Nigeria e nella regione di Cabo Delgado nel nord del Mozambico, gli islamisti si sono raggruppati, riarmati e hanno rafforzato strutture e alleanze esistenti o ne hanno create di nuove.
A fronte di una tale emergenza, i governi hanno ritenuto necessario imporre misure straordinarie, applicando in alcuni casi limitazioni sproporzionate al culto religioso, specie se confrontate con quelle imposte ad altre attività secolari. In alcuni Paesi, come ad esempio il Pakistan e l’India, gli aiuti umanitari sono stati negati alle minoranze religiose. La pandemia è stata utilizzata specie nei social network quale pretesto per stigmatizzare alcuni gruppi religiosi accusati di aver diffuso o addirittura causato la pandemia.

La minaccia della Cina alla libertà religiosa

Un video mostra il software di riconoscimento facciale in uso presso la sede della società d’intelligenza artificiale Megvii a Pechino, in Cina.

Un video mostra il software di riconoscimento facciale in uso presso la sede della società d’intelligenza artificiale Megvii a Pechino, in Cina. - Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS)

Il Rapporto evidenzia una nuova frontiera: l’abuso della tecnologia digitale, delle cyber networks, della sorveglianza di massa basata sull’intelligenza artificiale (AI) e sulla tecnologia del riconoscimento facciale per assicurare un maggiore controllo con finalità discriminatorie. Questo fenomeno è evidente soprattutto in Cina, dove il Partito Comunista sta reprimendo i gruppi religiosi con l’ausilio di 626 milioni di telecamere di sorveglianza con tecnologia AI e con l’aiuto dei sensori degli smartphone. Le tecnologie di sorveglianza a scopo di repressione hanno come obiettivo anche i cristiani e le altre comunità religiose. I rapporti indicano che, alla fine del 2020, «più di 200 telecamere di riconoscimento facciale erano installate in chiese e templi in una contea della provincia dello Jiangxi».

Altre 50 telecamere sono state poste nelle chiese statali registrate delle Tre Autonomie, e quasi 50 in 16 luoghi di culto buddisti e taoisti69. Le chiese che si sono rifiutate di installare le telecamere sono state chiuse, come è successo alla Chiesa di Sion, una delle più grandi chiese domestiche non registrate di Pechino.
Anche i gruppi jihadisti stanno impiegando la tecnologia digitale per favorire la radicalizzazione e per il reclutamento di nuovi terroristi.

Cile: gli incendi delle Chiese

Manifestanti danno fuoco al pulpito della chiesa di San Francisco de Borja un anno dopo l’inizio delle proteste antigovernative a Santiago, in Cile, il 18 ottobre 2020.

Manifestanti danno fuoco al pulpito della chiesa di San Francisco de Borja un anno dopo l’inizio delle proteste antigovernative a Santiago, in Cile, il 18 ottobre 2020. - Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS)

Il 19 ottobre 2020 due chiese sono state saccheggiate e bruciate a Santiago del Cile: la storica chiesa di San Francesco Borja e la chiesa dell’Asunción.
Un gruppo di manifestanti incappucciati gridava «lasciala cadere, lasciatela cadere!», mentre la cupola della chiesa dell’Asunción, conosciuta come la “parrocchia degli artisti”, veniva consumata dal fuoco.
Questi attacchi alle due chiese storiche sono avvenuti nel primo anniversario dello scoppio delle diffuse proteste antigovernative. Conosciute come Estallido Social (Scoppio Sociale), le manifestazioni sono iniziate il 7 ottobre 2019 con alcuni studenti che si opponevano ad un aumento delle tariffe della metropolitana di Santiago, per poi trasformarsi presto in una critica più ampia ed estesa a questioni sociali ed economiche. All’apice delle proteste, è sceso in strada più di un milione di persone.
Inizialmente pacifici, gli scontri sono degenerati in violenze con diffusi atti di vandalismo contro le infrastrutture governative, e in particolare la distruzione delle stazioni della Metro di Santiago. Nell’ambito dei disordini si sono registrati 30 morti e oltre 3.000 feriti. Il 19 ottobre 2019 il presidente cileno Sebastián Piñera ha annunciato lo stato di emergenza dispiegando forze militari in tutta la capitale.
Il malcontento sociale iniziale è durato più di tre mesi, per poi ridursi a proteste sporadiche in tutto il Cile. È stato durante queste manifestazioni, tra l’ottobre 2019 e l’ottobre 2020, che sono stati riportati episodi di saccheggio e distruzione delle chiese. Alla fine di tale periodo, 59 chiese, di cui 53 cattoliche e sei evangeliche, sono state vandalizzate e danneggiate in otto città del Paese. Le violenze hanno incluso incendi dolosi, saccheggi, profanazioni del Santissimo Sacramento, interruzioni delle funzioni religiose e danni alle porte e ai cancelli delle chiese. Vi sono stati incidenti che hanno visto i banchi delle chiese e le statue religiose utilizzati per costruire barricate, e pietre lanciate attraverso le vetrate delle chiese. Sebbene le autorità cilene abbiano condannato gli attacchi, nonostante gli appelli della Chiesa affinché fossero compiute delle indagini, non è stata aperta un’inchiesta ufficiale completa.

Nigeria: il rapimento di massa degli studenti

Una delle 300 studentesse rapite nel nord-ovest della Nigeria si riunisce alla sua famiglia a Jangebe, nello Stato di Zamfara, il 3 marzo 2021.

Una delle 300 studentesse rapite nel nord-ovest della Nigeria si riunisce alla sua famiglia a Jangebe, nello Stato di Zamfara, il 3 marzo 2021. - Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS)

L’11 dicembre 2020, combattenti di Boko Haram hanno fatto irruzione nella scuola secondaria scientifica statale di Kankara, rapendo oltre 300 studenti di sesso maschile. L’organizzazione terroristica ha rivendicato l’attacco ribadendo la ferma opposizione di Boko Haram all’istruzione in stile occidentale. Il 18 dicembre, l’esercito nigeriano ha liberato gli studenti rapiti.

Il governatore dello Stato nigeriano di Katsina, Aminu Masarithe, ha dichiarato che non era stato pagato alcun riscatto.

Il 17 febbraio 2021, uomini armati con uniformi militari sono entrati nell’istituto scientifico statale Kagara di Rafi, nello Stato del Niger, rapendo 27 tra studenti, insegnanti e familiari. Gli ostaggi sono stati rilasciati il 27 febbraio.

Il 26 febbraio 2021, circa 300 ragazze sono state sequestrate da un collegio gestito dal governo nella città di Jangebe. Secondo fonti locali, gli aggressori «sono arrivati su circa 20 motociclette e hanno fatto camminare le ragazze rapite nella foresta». Le giovani sono state rilasciate il 2 marzo. Il governatore dello Stato di Zamfara, Bello Matawalle, ha negato di aver versato un riscatto, ma in seguito il presidente Buhari «ha ammesso che in passato i governi statali hanno pagato i sequestratori “con denaro e veicoli” e ha esortato a rivedere una simile politica».

Quest’ultimo attacco, il terzo rapimento di massa di studenti in tre mesi, ha portato il numero totale degli alunni sequestrati a più di 600 dal dicembre 2020. Le autorità statali sostengono che quello di compiere il jihad non sia da considerarsi come l’elemento principale alla base dei rapimenti. Secondo le dichiarazioni, gli attacchi alle scuole nel nord-ovest «sono stati effettuati da “banditi”, un termine vago per indicare rapitori, rapinatori armati, ladri di bestiame, mandriani fulani e altre milizie armate», principalmente a scopo di riscatto. Eppure, alcuni osservatori notano come l’escalation dei rapimenti di massa indichi una cooperazione tra Boko Haram e i militanti fulani e che, di fatto, questi attacchi abbiano una profonda componente religiosa.

Il sultano di Sokoto ha dichiarato: «Non lasciatevi ingannare, questi rapimenti sono un’espressione del pensiero filosofico di Boko Haram, per cui l’educazione occidentale deve essere proibita. Ecco perché i loro obiettivi sono sempre i collegi, specialmente quelli a indirizzo scientifico, considerati atei da un punto di vista pedagogico».



Mozambico: una spirale incontrollata di violenze

Sopravvissuti al massacro di Muidumbe, fuggiti per 300 km a piedi per raggiungere un insediamento di rifugiati a Pemba, dove sono assistiti dalla Caritas (Mozambico, Cabo Delgado, dicembre 2020).

Sopravvissuti al massacro di Muidumbe, fuggiti per 300 km a piedi per raggiungere un insediamento di rifugiati a Pemba, dove sono assistiti dalla Caritas (Mozambico, Cabo Delgado, dicembre 2020). - Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS)


All’inizio di novembre 2020, quindici ragazzi e cinque adulti sono stati decapitati a colpi di machete dagli insorti dello Stato Islamico durante un rito di iniziazione per adolescenti. Dopo l’attacco nel piccolo villaggio rurale Il 24 Marzo nel distretto di Muidumbe, i jihadisti hanno portato i corpi delle vittime in un campo da calcio nel villaggio di Muatide. Più tardi, altri 30 giovani e adulti nello stesso distretto sono stati decapitati dai jihadisti in un assalto del tutto simile al precedente, e anche i loro corpi sono stati portati a Muatide e mostrati «in un macabro spettacolo destinato a incutere paura nella comunità locale».
Già prima di questi massacri, nell’aprile 2020 vi era stato un attacco di massa nel villaggio di Xitaxi, nel distretto di Muidumbe, nell’ambito del quale 52 uomini erano stati uccisi dopo che si erano rifiutati di unirsi alle file dei jihadisti. In una dichiarazione all’emittente pubblica TVM, il portavoce della polizia Orlando Mudumane ha spiegato: «I criminali hanno cercato di reclutare dei giovani affinché si unissero al loro gruppo, ma vi è stata resistenza. Questo ha provocato la rabbia dei criminali, che hanno ucciso indiscriminatamente e in modo crudele e diabolico 52 giovani».
Questi esempi evidenziano una tendenza all’intensificazione delle violenze estreme e delle uccisioni nella provincia settentrionale di Cabo Delgado nel Mozambico, in cui si calcola che negli ultimi tre anni il gruppo fondamentalista Ahlu Sunnah Wa-Jama (localmente noto come Al Shabaab), affiliato all’IS, abbia ucciso oltre 2.500 civili e costretto a sfollare oltre 570.000 persone.

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L’ascesa dell’estremismo islamico nel Mozambico settentrionale è un fenomeno complesso e con molteplici cause. I fattori che hanno permesso la rapida diffusione e la capacità di reclutamento delle reti jihadiste includono: povertà e corruzione; strutture statali deboli; mancanza di istruzione e opportunità di lavoro; l’arrivo di reti criminali transnazionali che beneficiano del commercio illecito di legname, gemme, oro o droga; frustrazione diffusa tra la popolazione locale, che è totalmente esclusa dai profitti ricavati dalle risorse minerarie; proteste generate dalle azioni repressive da parte delle forze dell’ordine; mancato rispetto del diritto alla terra; influenze fondamentaliste di Paesi come l’Arabia Saudita e la Somalia. Questi elementi, che favoriscono l’ascesa di gruppi come Al Shabaab, riflettono modelli e dinamiche di radicalizzazione islamista e di violenze estreme già osservati in regioni quali il bacino del Lago Ciad, il Sahel e la Somalia.
Nonostante tutti gli attori convengano sulla necessità di dover dare priorità nella risposta alle radici socio-economiche del conflitto, la reazione finora è stata profondamente militarizzata, con conseguente innesco di un’ulteriore spirale di violenza. Per monsignor Luis Fernando Lisboa, già vescovo cattolico di Pemba, capitale di Cabo Delgado, l’unica risposta sostenibile per contrastare l’estremismo violento nella provincia è la giustizia sociale.

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