giovedì 30 luglio 2020
Il device fu portato in Turchia, poi spedito in Francia. E consegnato alla famiglia 4 anni dopo. E a Raqqa è ancora vivo il leader del Daesh che era nell'ufficio dove fu visto entrare il gesuita
Padre Paolo Dall'Oglio, rapito a Raqqa il 29 luglio 2013

Padre Paolo Dall'Oglio, rapito a Raqqa il 29 luglio 2013

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Sette anni dopo, oltre al dolore appena attenuato da una tenace speranza, restano irrisolte domande sul rapimento di padre Paolo Dall’Oglio quel 29 luglio 2013 a Raqqa. E per rispondere si dovrebbe necessariamente ripartire dalla sede del Daesh, nella città poi divenuta “capitale” del Califfato, dove terminano i passi di padre Paolo Dall’Oglio da uomo libero.

Dopo averlo ospitato in casa per due giorni, l’amico Youssef Daas, direttore di un grande negozio a Raqqa, vide uscire l’inquieto gesuita per essere accompagnato fin sulla soglia del governatorato di Raqqa, divenuto la sede del Daesh, dove doveva incontrare l’emiro Abu Luqman. Non vedendolo tornare, gli amici bussarono il giorno seguente a quel maledetto portone. Abuna Paolo, ormai, era sparito. Al governatorato non incontrarono Abu Luqman, ma il suo vice: Abdul Rahman Faysal Abu Faysal che, mitra alla mano e giubbotto anti-proiettili, disse che nessuno straniero aveva mai varcato quella soglia. Fu nel 2018 Amedeo Ricucci, fra i pochi ad essere rientrato a Raqqa, a ricevere la testimonianza da fonti curde che Faysal Abu Faysal, figlio di una potente tribù locale, era vivo e viveva a casa sua. Impossibile all’inviato del Tg1 intervistarlo. «Ma le autorità italiane hanno ascoltato Abdul Rahman Faysal Abu Faysal? Esiste la possibilità di una rogatoria? È stata chiesta? Le autorità italiane hanno seguiro questa pista?», si chiede Riccardo Cristiano nell’istant book Dall’Oglio. Il sequestro che non deve finire (Castelvecchi) pubblicato in questi giorni. Dubbi di una inerzia che equivale al disegno di lasciare volutamente il sequestro Dall’Oglio nel limbo dell’indeterminato. Ancora più sconcertante, in questo silenzio carico di domande, è la vicenda del tablet e della valigia personale di Paolo Dall’Oglio. Il primo a scriverne fu Jeremy André su la Croix, tradotto in italiano da Il Sismografo.

Youssef Daas, che ospitò Dal l’Oglio a Raqqa prima della sparizione, riceve in custodia due borse da consegnare a un confratello «se non ritorno entro due giorni». Le voci sull’assassinio immediato, o del passaggio di mano come ostaggio del sacerdote italiano si rincorrono, mentre gli amici di padre Paolo vivono in una città sotto assedio dei jihadisti. Così nella primavera del 2014 Youssef Daas decide di fuggire da Raqqa e scopre, aprendo le borse di padre Paolo, dei telefoni, un tablet, dei taccuini, assieme a un po’ di contante. Si sbarazza del superfluo e dei vestiti, ma porta con sé il tablet, i telefoni e gli appunti. Sono 14 ore di viaggio terribili fino in Turchia, con il terrore che agli innumerevoli posti di blocco, qualcuno scopra di chi sono quegli oggetti. Youssef Daas chiede a un amico di spedire gli effetti personali al consolato italiano di Gazantiep, pensando, in questo modo, di venire contattato al più presto dalle autorità italiane. Ma questo non avviene.

Un intermediario, a cui l’amico di Daas si affida, spedisce il tutto a Parigi. Un importante oppositore siriano – molto probabilmente Michel Kilo – li consegna a «impiegati dell’ambasciata italiana in Francia». A Parigi certo, il dossier Dall’Oglio non è una priorità. Ma la famiglia scopre l’esistenza del plico solo nel 2018 e deve insistere a lungo per ricevere gli effetti personali. Quattro anni, mentre la password di accesso al tablet e ai telefono «sono fatte filtrare» sul web. Quattro anni, come dune di sabbia, a coprire la verità.

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