mercoledì 27 ottobre 2010
Il 2 novembre si rinnova più di un terzo del Senato, tutta la Camera e si scelgono 37 governatori. I democratici rischiano di perdere il controllo del Congresso. Al presidente si rimprovera di «non aver fatto abbastanza per la gente».
- Pancia e anime d’America di Andrea Lavazza
COMMENTA E CONDIVIDI
«Sarah Palin voterà, Glenn Beck e Rush Limbaugh voteranno. E tu?». Ma non erano i conservatori negli Usa a usare gli avversari come spauracchi per scopi politici? Questa volta, a meno di una settimana dal voto per il rinnovo più di un terzo del Senato, di tutta la Camera e di 37 governatori, il Partito democratico americano non ha esitato a usare in uno spot i volti dei personaggi più odiati dalla sinistra per spaventare i suoi iscritti e convincerli ad andare alle urne. Nel frenetico sforzo di «get out the vote» (tirare fuori il voto), l’asinello ha schierato lo stesso Barack Obama, il suo vice Joe Biden, la first lady Michelle e, soprattutto, il volto più amato del partito, Bill Clinton, l’unico in grado di farsi ricevere con entusiasmo negli Stati ostili al presidente. Se sembra che stia funzionando (nei 29 Stati dove sono già in corso le operazioni di voto si registra un’affluenza di elettori democratici più alta del previsto), questa maratona finale rivela quanto la crisi economica e alcuni passi falsi di Obama abbiano seminato delusione e apatia fra gli iscritti al partito di maggioranza.Eppure, la posta in gioco è alta per i liberal. È più che probabile che il Gop riesca a conquistare almeno i 39 seggi necessari a strappare alla sinistra il controllo della Camera. Più incertezza rimane al Senato, dove nelle ultime ore la battaglia si è ristretta a una manciata di seggi, ma dove i democratici potrebbero mantenere una maggioranza risicata. Il rischio di una paralisi di governo è reale, nonché quello mettere a nudo quanto fosse effimera la fede dei democratici nella loro capacità di cambiamento, che sembrava incrollabile durante la storica elezione di Obama di due anni fa.Naturalmente, nessuno ha più da perdere dello stesso presidente, che la scorsa settimana è stato impegnato in un frenetico tour degli Stati dell’Ovest tentando di riaccendere l’entusiasmo dei suoi elettori. «Diamo fuoco alle polveri», esclamava infatti un energetico Obama a fianco della moglie in un video mandato in onda su Youtube. Ma persino lui comincia a dare segni di frustrazione di fronte alla difficoltà di ricompattare attorno a sé e al Congresso la base del partito. «I democratici geneticamente vedono il bicchiere mezzo vuoto – si è sfogato durante un ricevimento a Greenwich, in Connecticut –, se otteniamo il passaggio di una legge storica sulla sanità dicono, oh, ma manca una componente pubblica. Se passa la riforma della finanza, non sono soddisfatti della norma sui derivati. E, ah, ma non abbiamo ancora la pace nel mondo: che cosa aspetta Obama?».La realtà è che lo stesso inquilino della Casa Bianca aveva creato attese enormi, e ora i delusi sono molti. «Non ha ascoltato abbastanza chi lo ha eletto, non ha fatto abbastanza per la gente comune», si lamentava di recente in Michigan una sua sostenitrice, che avrebbe voluto vedere scelte più coraggiose come, appunto, la nazionalizzazione del sistema sanitario e norme severe anti-lobby. Gli indipendenti al contrario biasimano il presidente per essere intervenuto troppo pesantemente durante la recessione: «Si era presentato come un centrista, ma non lo è. La sua piattaforma economica è basata su alta spesa pubblica e più poteri al governo», commenta un professionista indipendente di New York che aveva votato per Obama.I sondaggi tirano le somme: fra gli elettori del primo presidente afroamericano della storia Usa il 63 per cento non pensa che il "cambiamento" che aveva promesso si avvererà.La differenza rispetto all’entusiasmo che i repubblicani, complice anche il populismo del Tea party, stanno riversando nelle campagna si vede: per la prima volta in 80 anni più repubblicani (4 milioni in più) che democratici si sono espressi alle primarie.Di qui la corsa finale per raccogliere fondi e mantenere almeno il vantaggio economico che i candidati progressisti hanno sui conservatori e per aver abbastanza soldi martedì prossimo per portare gli elettori alle urne (i sindacati, tradizionalmente pro-democratici, prevedono di spendere 200 milioni il giorno delle elezioni). Potrebbe fare la differenza in Stati come la California, dove i democratici partono con quasi il 45% degli elettori registrati, ma vedrebbero il loro vantaggio sfumare se la base il 2 novembre rimanesse a casa.Per questo la strategia elettorale della Casa Bianca si è concentrata su Stati tradizionalmente rossi (democratici), ma questa volta a rischio, come la California, l’Oregon, Washington e il Nevada, e sulle categorie più solidamente democratiche: neri, Latinos, abitanti delle metropoli e laureati, senza dimenticare le donne. Quanto alla heartland, il "cuore dell’America", fatto da lavoratori bianchi e dalle comunità rurali che avevano dato a Obama un modesto voto di fiducia nel 2008, il presidente vi ha quasi rinunciato. La delusione in West Virginia, Ohio e Pennsylvania, dove disoccupazione e pignoramenti sono alle stelle, è tale che i candidati di quei distretti non vogliono più farsi vedere vicino al presidente. Lo si è visto domenica in Rhode Island, dove il candidato governatore dei democratici Frank Caprio ha detto a Obama di «prendere il suo endorsement e cacciarselo...» creando imbarazzo in tutto il partito.Mentre tenta di salvare il salvabile, la Casa Bianca si sta preparando allo scenario post-elettorale. Il presidente guarda a Clinton e a Reagan che, dopo una débâcle elettorale a metà del primo mandato, aggiustarono il tiro e vennero rieletti due anni dopo. Reagan grazie ad alleanze con i democratici e Clinton adattandosi a presentare proposte più modeste a un Congresso ostile.Sarà Obama in grado di fare altrettanto? Sebbene abbia detto che non rinuncerà ad affrontare temi difficili come l’immigrazione e la riduzione del deficit, il presidente ha già lasciato capire che, comunque vada il 2 novembre, il suo passo rallenterà: sarà più preoccupato a salvaguardare quello che ha ottenuto, soprattutto le riforme della sanità e della finanza, da sfide in Congresso e in tribunale, che a lanciare iniziative epocali. Come ha ammesso un suo collaboratore al New York Times: «La Casa Bianca avrà ben pochi incentivi a fare grandi cose nei prossimi due anni, a meno che una crisi non ce lo imponga».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: