domenica 24 marzo 2024
La salita alla Città santa della delegazione di Milano fino al Santo sepolcro: «Non mettiamo una pietra sopra alla speranza. La guerra, come la pietra della tomba vuota, rotolerà via»
Il gruppo con il patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa

Il gruppo con il patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa - Geaway

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«Benvenuti. Siete una benedizione, siete il primo gruppo che arriva dopo cinque mesi». Il saluto è lo stesso di tutti, il sorriso accogliente maschera appena un sospiro di angoscia. La salita a Gerusalemme, in questo marzo di guerra, ha qualcosa di surreale fra vicoli lucidi di pioggia che riflettono una tersa luce di primavera sulla pietra bianca delle abitazioni della Città santa. Sono una ventina i pellegrini giunti a Gerusalemme con la Fondazione Ambrosianeum, assieme a pochissimi turisti nelle stradine del suq con quasi tutte le saracinesche abbassate.

Il Getzemani non può che essere, almeno dal punto di vista ideale, il punto di avvio della aliyah: nel silenzio dell’orto degli ulivi è come se il dolore della tragedia sprigionatasi a partire dal 7 ottobre si materializzasse in quella roccia che al centro della basilica dell’Agonia raccolse il sudore di sangue di Gesù di Nazareth lo notte prima della Passione. A chi ci è già stato, attraversate le mura della Città vecchia, colpisce la strada sgombra nell’imboccare il cardo: cantano i meuzzin dal minareto di al-Aqsa, corrono svelti gli ebrei ortodossi al Muro del pianto. Nell’assenza di ogni altro rumore il bilancio quotidiano che tutti qui sono costretti ad aggiornare è come un “rimbombo” fra gli altri pensieri: 1.200 le vittime del “Sabato nero” che tutti definiscono uno «spartiacque» come «nel 1948» oppure «come nel 1967»; 134 gli ostaggi ancora nei cunicoli o nei rifugi segreti di Hamas; più di 32mila le vittime civili di Gaza. Un conteggio sordo che lacera l’anima e inquina le relazioni in un silenzio – ti spiega chi a Gerusalemme ci vive – carico di risentimento e paura. Un piano inclinato perché la diplomazia sembra solo perdere tempo, un piano inclinato che sembra dover sfociare in altro odio.

Per questo il camminare fra i vicoli di Gerusalemme, entrando da porta Damasco, è già rompere l’assedio dell’isolamento della Città santa per i figli di Abramo: «Siamo venuti per ripetere quello che fu il grido di intercessione del cardinale Martini» spiega Paolo Dell’Oca dell’Ambrosianeum. Intercedere «non vuol dire semplicemente pregare per qualcuno», ma significa «fare un passo in mezzo», «mettersi tra le due parti in conflitto», prosegue Dell’Oca citando le parole del cardinale Carlo Maria Martini durante la veglia di preghiera in Duomo di fine gennaio 1991, appena iniziata la prima guerra del Golfo.

«Già il venire sin qui è un lavorare per la pace» conferma padre Francesco Patton, nella salone della Custodia di Terra santa. Un desiderio, però, da custodire e purificare, un desiderio da difendere contro il rancore che distorce le dichiarazione dei leader nemici, rancore e timore che chiudono le bocche dei negozianti nel suq con troppe saracinesche abbassate. Cita l‘Anonimo perugino dalle Fonti francescane il custode di Terra santa: «Come annunciate la pace con la vostra bocca, così abbiate sempre una pace più grande nel vostro cuore» diceva San Francesco ai suoi frati. Una «mansuetudine» che parrebbe irrimediabilmente persa da comunità chiuse nelle loro narrative contrapposte. Pesano le parole, pesa il linguaggio in una società che tende a «disumanizzare l’altro». Ed è per questo che le parole di Rachel Goldberg Polin – la portavoce dei familiari degli ostaggi israeliani madre di Hersh, il suo unico figlio da quasi 170 giorni in mano ad Hamas – sono come una luce che splende nella notte. Fra Patton le riporta così: «”Bisogna che noi comprendiamo la loro sofferenza e che loro comprendano la nostra sofferenza, arrivando ad una accettazione reciproca” ha affermato ripetutamente nelle scorse settimane la donna israeliana. Questo – conclude il custode di Terra santa – il compito della nostra piccola comunità cristiana, questo il compito che si auspica dalla comunità internazionale».

Però solo una tregua duratura nei combattimenti, è convinzione diffusa, potrà riannodare le fila di un dialogo che ora tutti sentono irrimediabilmente spezzato: il peso da portare è insostenibile. Ogni famiglia in Israele ha un parente ucciso il 7 ottobre o ancora in ostaggio. La tragedia della Terra santa è anche negli occhi di padre Ibrahim Faltas che ha portato in Italia i 160 bambini accolti nei nostri ospedali: «Questi piccoli ti raccontano come è morto il loro padre. L’Italia è l’unico Paese europeo che li ha accolti! Grazie. Ho un sogno: aprire un corridoio per ricongiungere questi piccoli ora ricoverati in vari ospedali con i loro fratelli rimasti nella Striscia», spiega nel suo studio dell’high school della custodia di Terra Santa. Una goccia nel mare di dolore. «Ora a Gaza si muore di f ame e di sete: in 35 anni mai visto nulla di simile». Il frate egiziano ha pure negli occhi la tragedia della Cisgiordania senza lavoro dove a proliferare sono invece corruzione e richieste di pizzo: «Tantissimi adesso vogliono andare via. Intanto il ministro Ben Gvir ha deciso di consegnare nuove armi a 100mila coloni».

Parole che tornano in mente mentre, terminata la Via dolorosa si arriva alla piazzetta del Santo sepolcro. Solo il cielo terso e azzurro dona un attimo di pace: «Sto meditando sugli ultimi due capitoli dell’Apocalisse, quelli della Gerusalemme celeste che scende dal cielo e dove il mare, simbolo del male, è scomparso» risponde il cardinale Pierbattista Pizzaballa a un sacerdote ambrosiano che domanda – durante l’incontro al patriarcato latino – quale brano della Bibbia stia meditando. Tra una settimana sarà Pasqua. Ogni giorno, in queste sere di Ramadan, almeno 50mila musulmani si radunano alla mosche di al-Aqsa, quando il canto del meuzzin indica che si può rompere il digiuno. Il 10 aprile Eid al Fitr – la festa per l’interruzione del digiuno – e pochi giorni dopo, il 22 aprile inizierà Pesach per gli ebrei, i “fratelli maggiori”. Un mese o poco più per sapere se i mediatori di Doha avranno disinnescato l’attacco di Netanyahu su Rafah, dove un milione e mezzo di profughi preme sulla frontiera egiziana. Le cartine di alcuni analisti che indicano gli edifici occupati dagli ebrei ortodossi nel quartiere cristiano, in quello armeno e in quello musulmano della Città vecchia sono un altro sinistro presagio.

Il Santo sepolcro è deserto: si può entrare a celebrare l’Eucaristia dove, di solito, si fanno due ore di coda per sostare in preghiera pochi secondi. La porta del sepolcro è aperta: «Uomini di Galilea perché cercate fra i morti Colui che è vivo» canta il Vangelo di Pasqua nel più santo dei luoghi santi. È la Speranza, in questo tempo di terza guerra mondiale a pezzi: «Non mettiamo una pietra sopra alle speranze, ai tentativi di pace», dice un altro sacerdote: la pietra del sepolcro che è la guerra , quando il tempo verrà, sarà rotolata via. Salire a Gerusalemme, è possibile. La sera in hotel si legge insieme il salmo 122: «Là salgono insieme le tribù, le tribù del Signore, secondo le leggi di Israele,...domandate pace per Gerusalemme,... per i miei fratelli e i miei amici io dirò: “Su di te sia pace!”»

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