sabato 28 ottobre 2023
Studioso e attivista per il dialogo, Gershon Baskin spiega che la strategia della pressione serve a trovare un accordo sugli ostaggi. Ma il tempo sta scadendo
Il fumo si alza durante un attacco aereo israeliano nel nord della Striscia di Gaza

Il fumo si alza durante un attacco aereo israeliano nel nord della Striscia di Gaza - Ansa

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La trattativa per liberare le 229 persone rapite da Hamas il 7 ottobre – questo l’ultima cifra fornita dall’esercito – è entrata in una fase delicata da qualche giorno. L’ampliamento delle operazioni militari sulla Striscia – il governo di Benjamin Netanyahu parla di «passo successivo» del conflitto – fa parte della strategia di pressione sul gruppo armato per arrivare ad un accordo il prima possibile. Ne è convinto Gershom Baskin, studioso e prestigioso attivista per il dialogo, che di negoziati se ne intende. È stato lui ad aprire, il primo luglio 2006, appena sei giorni dopo il sequestro del soldato Gilad Shalit, un canale con il gruppo armato. Nei cinque anni successivi, Baskin ha lavorato dietro le quinte fino a quando, nell’aprile 2011, è diventato intermediario ufficiale tra i miliziani – rappresentati da Razi Ahmed – e il delegato israeliano David Meidan. Dopo altri sei mesi di estenuanti tira e molla, il 18 ottobre 2011, Shalit è tornato a casa.

Stavolta Baskin non ha un ruolo formale nei negoziati. Nell’ombra, però, continua a utilizzare i propri contatti per facilitare alla liberazione degli ostaggi. «Da qualche giorno, però, non ricevo risposte dalle mie fonti all’interno di Hamas a Gaza, in Qatar e in Egitto», racconta, seduto nella cucina della sua casa in un quartiere residenziali di “Gerusalemme nuova”.

Professor Baskin, a che cosa ritiene si debba il silenzio dei suoi contatti? E perché ritiene che il negoziato sia entrato in una fase delicata?

In genere, quando le fonti smettono di parlare è perché la trattativa sta accelerando e si vuole evitare di fare filtrare informazioni che potrebbero comprometterla o dare un vantaggio a una parte o all’altra. L’altra sera, nei media è circolata la notizia del rifiuto di Israele a rilasciare cento sequestrati in cambio di cinque giorni di cessate il fuoco. Il che, secondo me, non ha senso. Ho chiesto, dunque, conferma a un contatto egiziano e non mi ha risposto in modo diretto. Ha detto: “La trattativa è molto serrata in questo momento”.

Qualche analista parla di fallimento del negoziato. E legge l’esclation su Gaza come una risposta. È d’accordo?

L’escalation è parte della trattativa non una risposta al suo fallimento. È il modo di aumentare la pressione su Hamas e spingerla ad arrivare a un accordo il prima possibile. Israele vuole che Qatar ed Egitto convincano il gruppo armato a liberare tutti gli ostaggi, non solo i civili. E ovviamente non è facile. In un primo momento, Hamas sembrava disposta a scambiare i non combattenti per uno stop di cinque giorni ai raid. Poi, giovedì, ha alzato la posta.

Come lo sa?

Me l’ha detto Mussa Abu Marzuk, uno dei fondatori di Hamas e, tuttora, uno dei suoi leader a Doha, anche se non so se si trovi là al momento. Lo conosco da molti anni. Dal 7 ottobre ho iniziato a inviargli messaggi ma non ha mai risposto. Fino a giovedì, quando mi ha scritto: “Prima Israele smetta di bombardare, poi parleremo degli ostaggi”. Non più, dunque, uno scambio tregua-prigionieri, ma la tregua per iniziare a trattare sui prigionieri.

A quel punto Israele ha intenficato la pressione con l’escalation?

Di certo, le incursioni cominciate venerdì sono necessarie per preparare l’operazione di terra. L’esercito non vuole trovarsi di fronte mine, ordigni o tombini da cui spuntano attentatori. Deve, dunque, “ripulire l’area”. E sgombrarla anche dai civili. Per questo, ha detto che chiunque resterà nel nord sarà considerato automaticamente un miliziano. Allo stesso tempo, però, l’escalation è parte della guerra di nervi con Hamas per spingerla a un accordo sugli ostaggi. Il gruppo armato fa altrettanto: il recente annuncio della morte di 50 rapiti fa parte della strategia di pressione.

Non crede che siano morti?

Non si sa. Non si sa niente. Forse non lo sa nemmeno Hamas.

Che cosa intende?

Al massacro e maxi sequestro del 7 ottobre hanno partecipato miliziani della Jihad islamica, del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Pflp), e tanti “cani sciolti”. Magari Hamas è riuscita a prendere il controllo dei prigionieri come nel caso di Shalit. Anche allora l’attacco alla base dove il soldato si trovava, avevano partecipato tre gruppi differenti. Poco dopo, però, Hamas ha preso in mano l’ostaggio. Stavolta potrebbe non essere così. Oltretutto non sono nemmeno sicuro che i leader a Doha – lo stesso Mussa Abu Marzuk – abbiano il controllo dei comandanti dentro la Striscia, il che rende questo negoziato molto difficile.

Un accordo è ancora possibile?

C’è una piccola finestra di opportunità. Anche Israele sembra crederlo e per questo non ha finora fatto un blitz per liberarli con la forza. In quel caso non sappiamo quanti sopravviverebbero. Per questo, vuole esaurire tutte le possibilità negoziali. Quando le riterrà finite entrerà. Per questo è necessario fare in fretta.

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