venerdì 1 dicembre 2023
L'elevata concentrazione di civili e le difficoltà operative possono rivelarsi devastanti per gli invasori
Un mezzo trasporta-truppe si dirige verso lka parte meridionale della Striscia di Gaza

Un mezzo trasporta-truppe si dirige verso lka parte meridionale della Striscia di Gaza - Reuters

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Servirà davvero aver ripreso a combattere? E quali sono gli obiettivi di Israele? Yoav Gallant è lapidario: «La guerra è ripresa» ed è la reazione immediata alla pugnalata di Hamas a Gerusalemme, colpo fatale a una tregua già fragile. Combattiamo ma faremo l’impossibile per riportare gli ostaggi a casa», chiosa il ministro della Difesa, quasi illuso di avere soluzioni a portata; è da metà novembre che si picca dei successi di Tsahal, ipertecnologica e perfettamente coordinata: «Hamas ha perso il controllo di Gaza», ha detto due settimane fa. Ma i bollettini delle Idf e le inchieste del magazine +972 lo smentiscono: l’86% dei 14mila morti di Gaza è rappresentato da «non-combattenti», un eufemismo per celare vecchi, donne e bambini. Emerson T. Brooking, che lavora da decenni all’Atlantic Council, è severo: «Nella guerra del 2014, la percentuale di civili non superava il 60% dei caduti». Dove sono proporzionalità e discriminazione, cardini dello jus in bello occidentale?

E dove sono i risultati dopo due mesi di vendette? «Abbiamo ucciso 2-3mila guerriglieri», dicono dalla Difesa israeliana, il che significa aver fatto quasi un buco nell’acqua. Hamas, pur privata di alcuni comandanti, è ancora integra, intaccata secondo Patrick Auvergne in 10 dei 24 battaglioni disponibili. I terroristi palestinesi sono forze di guerriglia: «Non ingaggiano battaglie frontali, né scontri diretti di fanteria», privilegiano invece imboscate e asimmetria. Non seguendo logiche lineari rinnovano leadership e organici in poco tempo; sanno combattere anche senza direttive dall’alto, essendo sciami autonomi più che falangi eterodirette. Sono sfuggenti. Pietro Batacchi (direttore della Rivista Italiana di Difesa) ricorda che a «Gaza tutto sa di trappola per l’attaccante». Non ancora impegnate in battaglie casa per case nelle viuzze di Gaza City e del quadrilatero urbano circostante, le truppe israeliane piangono perdite comunque alte, superiori a quelle del 2006, quando la guerra le oppose a Hezbollah, in una campagna definita da molti esperti come «un mezzo fallimento». Laure Foucher, analista quotata della Fondazione per la ricerca strategica, non ha dubbi: «A Gaza non esistono soluzioni militari». Le bombe ”intelligenti” e i fucili all’avanguardia di Israele non sono riusciti a eliminare nessuno dei massimi dirigenti di Hamas: né Deif, né Synwar, da sempre inarrivabili.

La loro eliminazione permetterebbe a Netanhyau di vendere un successo all’opinione pubblica interna. Intuendolo, Hamas si è trincerata nel sud della Striscia che, insieme alla Cisgiordania, è accreditato anche dal Washington Post come il prossimo fronte di guerra. L’”end state” di questa guerra rimane però un mistero per tutti, forse anche per il gabinetto di guerra israeliano: se Hamas fosse annientata a Gaza, risorgerebbe altrove, nella stessa Cisgiordania o in Libano: «La metastasi è solo questione di tempo», osserva l’esperto di controterrorismo Jean-Marc Lafon. Il negoziato sugli ostaggi è un’avvisaglia: Hamas ha scambiato i prigionieri con cittadini cisgiordani detenuti nelle carceri israeliane, «lanciando un’Opa sulla regione». Ha gettato le basi per darsi un futuro oltre Gaza. Rassegnati alla nuova escalation, gli americani Biden e Blinken si stanno affannando a scoraggiare Netanyhau dall’usare nuovamente il pugno di ferro, ritenendolo autolesionista, soprattutto nel sud della Striscia. Il meridione è critico: ospita un milione e passa di profughi e non è meno urbanizzato del nord. È un’autentica prigione, perché l’Egitto, in allerta, ha sigillato da tempo la frontiera. Per i civili non ci sarebbe scampo, stritolati fra il martello di Tsahal e la barriera cairota, erta a presidio del Sinai, da anni teatro dell’insorgenza del Daesh. Il generale israeliano Herzi Halevi è comunque ottimista e annunciando che il piano di battaglia è pronto, aggiunge: «Sappiamo che cosa è necessario fare e siamo preparati al passo successivo». Non sarebbe forse più saggio mediare? La guerra rischia di traboccare ad ogni eccesso israeliano e, se Hamas fosse messa veramente alle corde, Hezbollah non starebbe a guardare, essendo l’alfiere dell’asse della resistenza.

Molti altri fattori dovrebbero scoraggiare Israele: il consenso internazionale alla sua difesa, vista inizialmente come legittima, è svanito con i tanti morti innocenti e con la realpolitik di un Occidente prudente, forse perché timoroso di alienarsi il mondo arabo e di importare frammenti di guerra in casa propria. Perfino gli americani sono guardinghi. È verosimile che Blinken, durante la visita in Israele, abbia avallato la ripresa delle ostilità, ma il supporto statunitense potrebbe essere a tempo; se mancassero le munizioni e il denaro d’oltreatlantico, Israele andrebbe in panne, impossibilitata a combattere a lungo e a sopportare l’impatto economico della guerra, stimato già dalla banca centrale al 3% del Pil. Guerreggiare per cosa poi? Contro il terrorismo, non esistono battaglie campali risolutive, perché le insorgenze mutano forma e sopravvivono ai colpi, come insegnano le guerre asimmetriche dell’ultimo trentennio. I polemologhi John Keegan e David Hanson lo scrivono da sempre e direbbero oggi che, a Gaza, non si vince con i blindati, ma facendo interagire polizia, intelligence e forze speciali. Se Israele ha ancora sete di vendetta, le bastano il Kidon, lo Yamam e i mitzazarim. ​

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