venerdì 18 agosto 2023
La baracca, tra Donetsk e Dnipro, è diventata da subito un rifugio dove si incontrano le storie di chi parte e chi torna. La cuoca Valentina ha 70 anni: «Vengo qui sempre, cosa farei da sola a casa?»
La taverna non ha un nome: all’esterno una scritta tracciata con il pennello dice soltanto «cibo». Alcuni volontari l’hanno aperta all’inizio della guerra e continua a servire pasti caldi a chiunque si fermi

La taverna non ha un nome: all’esterno una scritta tracciata con il pennello dice soltanto «cibo». Alcuni volontari l’hanno aperta all’inizio della guerra e continua a servire pasti caldi a chiunque si fermi - Max Gutsu

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In quel tratto dell’interminabile strada che corre da Donetsk a Dnipro la steppa è azzurra al primo mattino, non si solleva il mare allegro dei girasoli né si distende quello bruno e mietuto del grano. Solo un’ipnosi piatta d’erba punteggiata talvolta da remote e immobili figure d’animale. Quasi un breve monumento all’antica natura dello spazio nomade, la terra di confine dove nei secoli trascorrono gli eserciti, cercando l’Asia o l’Europa. Ma la solennità dello spirito ciclico dei tempi che divorano o esaltano le storie di mercanti, viaggiatori e generali non è certo la prima impressione a nascere se si varca la soglia dell’anonima costruzione, insieme ad altre un grumo di esercizi e magazzini cresciuto ai bordi dell’asfalto. A prevalere è lo stupore, pur raro, per un perduto focolare quotidiano.

All’ombra della tettoia esterna tre donne intorno a un tavolo affettano cipolle e cetrioli. Una teglia di sfoglia rossastra sfredda sui fornelli spenti, accanto sobbolle una marmitta. Lungo le pareti decine di barattoli di vetro in una memoria di stagioni contadine. I sacchi di patate, di riso, i moderni frigoriferi commerciali, il ferro antico delle pentole modellato da milioni di cotture. All’interno una luce opaca, come di sotterraneo, si posa sull’elenco colorato delle prelibatezze disposte con ordine ripetuto sulla lunga tavolata. Nessun ospite ha ancora preso posto. Lo straniamento è quello dell’apparizione fiabesca.

«Il 25 febbraio, il giorno successivo all’invasione dei russi, ho chiesto un Kalashnikov. Nessuno me lo ha dato, e allora mi son messo a cucinare il pane ripieno», racconta divertito Anatolij. Ciarliero, tozzo, rubizzo, tende una maglia verde oliva cosparsa di macchie con lo stomaco poderoso. È cominciata così la resistenza spontanea della piccola comunità. Presto denari, vettovaglie, strumenti, cuochi e camerieri hanno cominciato a comporre la cucina, a riempire gli scaffali e i turni del servizio. Migliaia fra soldati, civili e volontari si son fermati lungo la rotta che conduce o s’allontana dal Donbas per la difesa, la riconquista, la fuga dall’orrore. Anatolij, ex-piccolo imprenditore sessantenne, coordina oggi un gruppo di ottanta persone che a rotazione, il giorno e la notte, compongono incessantemente la natura vivissima del banchetto. «Il 26 febbraio abbiamo preparato la prima pentola di borsch, la nostra minestra tradizionale. È come se tutto le fosse cresciuto attorno. Un giorno, nel luglio del ’22, abbiamo servito 3.500 persone. Ho ascoltato così tante storie che non basterebbe un mese a raccontarle. Stanco? Voglio solo che questa guerra finisca» confessa Anatolij senza perdere la giovialità sorniona. Mostra divertito e orgoglioso le foto che immortalano la visita dell’ex presidente e magnate Poroshenko, munifico donatore di tre lavatrici.

Pyrizhky, il pane ripieno della fondazione, la torta di zucca, quella di fegato, i peperoni ripieni, gli straccetti di carne, il cavolo e le melanzane fermentate, l’insalata Olivier, che da noi si chiama russa. Anche la scenografia che corre intorno ai sapori domestici è proliferata in addensamento nazionalistico: le bandiere ucraine vergate fino all’ultimo lembo da nomi, date, moti poetici e resistenziali, centinaia di mostrine, spille e gagliardetti da ogni compartimento delle forze armate, il ritratto di una martire, il casco di un pompiere, fotografie, bossoli di razzi schiantati senza uccidere, le icone sacre strappate dai soldati alla chiesa locale, data alle fiamme dai fanti di Mosca. Confusa nella cumulazione del sentire collettivo, nell’esaltazione oppositiva, fiera e tragica di una nuova identità, una targa che ha battezzato la taverna: “Chumatsky”, il sentiero del Chumak, l’antico venditore errante che su un carro portava alla steppa l’oro bianco, il sale estratto dalle acque del Mar Nero e del Mare d’Azov.

«Sono qui fin dal primo giorno, vengo anche quando sto male. Cosa farei a casa? A casa c’è solo l’angoscia», dice Valentina Mykhailivna, 70 anni. Percorre con l’indice la strada che sul volto tracciano le lacrime quando pensa a tutti i giovani soldati che si sono seduti, confidati, hanno ripreso lenti la strada.

«Ogni loro ringraziamento è una medaglia per me. Sa quanti ne ho visto, alzarsi da tavola e infilarsi in quello stanzino, a piangere di nascosto?». Ma stasera si prepara una notte d’ebbrezza e di pace al Sentiero del Chumak. Il figlio di Anatolij torna dal fronte in licenza per abbracciare la figlia appena nata. Il novizio patriarca farà scorre a fiumi il “Raggio di luna”, la brutale vodka fatta in casa. Sono tutti invitati, tutti i viandanti per la vita nuova e l’effimero oblio della morte.

Fuori, nel mattino diventato abbagliante, l’insegna rossa recita, semplicemente, «cibo».


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