venerdì 15 gennaio 2010
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La facciata bianco-rosa sormontata da un grande rosone, l’unica rimasta intatta della cattedrale di Port-au-Prince, s’erge come un lugubre fantasma su un panorama di macerie. È una delle tante sconvolgenti immagini che ci scorrono davanti agli occhi in questi giorni, ma è anche la più simbolica dell’immane tragedia che ha investito, insieme con il suo popolo, la Chiesa di Haiti. Nell’isola più povera e sfortunata dei Caraibi la comunità cattolica conta 7 milioni di fedeli (circa due terzi della popolazione) e ha sempre avuto forti connotati popolari. Ricordo una messa cui ho assistito nella cattedrale oggi andata distrutta: non era una semplice celebrazione ma una festa di canti e di balli, con una folla pittoresca di bambini, uomini e donne che si muovevano a passo di danza e inneggiavano a squarciagola tenendosi per mano lungo la navata addobbata con festoni colorati. Fede, riti voudou e musica delle Antille, tutto mi sembrò frammischiato in questo lembo d’Africa trapiantato in America. Cos’è rimasto di questa Chiesa giovane, entusiasta e caotica? Qual è la sorte di migliaia di fedeli, di centinaia di sacerdoti e missionari travolti dal terribile sisma? Cosa si è salvato dei luoghi di culto, delle scuole e delle tante istituzioni cattoliche? Sono domande piene d’angoscia che al momento ricevono prime, frammentarie risposte, purtroppo di segno sconfortante. Il terremoto ha spazzato via quasi tutto e ha spezzato molte vite, a cominciare dall’arcivescovo di Port-au-Prince, monsignor Joseph Serge Miot. L’avevo incontrato vent’anni fa, quand’era segretario della Conferenza episcopale haitiana. Era il tipico esponente del cattolicesimo fiero e coraggioso che si era battuto contro la dittatura dei Duvalier. In questa lotta, ferma e dignitosa, la Chiesa locale aveva ricevuto l’esplicito appoggio di Giovanni Paolo II nel corso della sua visita ad Haiti nel 1983. «Occorre che qui le cose cambino!» furono le severe parole pronunciate in pubblico da Papa Wojtyla di fronte a un allibito Baby Doc, il dittatore obeso con la faccia da bambino. E le cose cambiarono. «Omaggio ai nostri vescovi!» era il titolo di un giornale locale che mi capitò in mano appena sbarcato ad Haiti all’indomani della caduta di Baby Doc, nel febbraio del 1986. Quando ci tornai, quattro anni più tardi, trovai una Chiesa drammaticamente divisa, con i preti della “ti legliz”, la teologia della liberazione in versione creola, che miravano alla conquista dello Stato. Monsignor Miot, in un’intervista premonitrice, mi disse che l’estremismo clericale avrebbe portato solo guai al Paese e alla Chiesa. Pochi mesi dopo il prete ribelle Aristide diventava capo di Stato e con lui Haiti precipitò verso una nuova dittatura cui seguirono golpe e contro-golpe fino all’ennesima rivolta del 2004 che cacciò l’ex sacerdote dal potere.«Abbiamo bisogno di credenti che sappiano testimoniare l’autentica missione della Chiesa» era la preoccupazione di padre Miot, inflessibile con le dittature sanguinarie ma anche con le rivoluzioni violente. Era animato da un profondo desiderio di riscatto per la sua patria, l’isola nera dei Caraibi tristemente nota come “la culla dell’Aids” e il luogo estremo della barbarie primitiva. Nominato vescovo ausiliare di Port-au-Prince nel 1997 Miot era diventato uno dei personaggi più autorevoli della Chiesa d’Haiti. Due anni fa, nel marzo del 2008, fu nominato arcivescovo della capitale. Sotto la sua guida il cattolicesimo creolo stava imparando a non confondere la croce con il machete ed a combattere l’ingiustizia senza cadere nell’odio. Ma oltre alla violenza degli uomini su questa terra, splendida e infelice, s’accanisce in modo implacabile e feroce anche la natura. Haiti, dove la Chiesa è chiamata a rinascere insieme con una speranza sempre più difficile.
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