domenica 24 gennaio 2010
Nascono tendopoli e riaprono negozi, si prova a ripartire. È tornato in vendita il carburante, seppure a un prezzo quadruplicato, e per Port-au-Prince si rivede il traffico. I soccorsi delle grandi organizzazioni faticano a essere tempestivi, più efficaci le ong. E la gente ha la forza di dire «grazie».
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Il vento caldo smuove appena i detriti fuligginosi, gli sterpi disseccati, che tappezzano la piazza in cui sorge ciò che resta della cattedrale di Port-au–Prince, la bella chiesa di Notre Dame afflosciata su se stessa, sotto le cui macerie si è consumata la vita terrena dell’arcivescovo Serge Miot. Proprio l’assenza di rumore che si coglie con sgomento è forse il marchio più terribile che rimane nell’anima di fronte allo spettacolo della devastazione. Sono passati più di dodici giorni da quella prima terribile scossa che ha cancellato interi quartieri della capitale e spianato città come Leogane e Jacmel. E ora Haiti, con i suoi 120mila morti, i suoi 500mila accampati in ogni dove, il suo milione e mezzo di profughi, le sue fosse comuni, i suoi feriti disseminati negli ospedali di fortuna, le sue tonnellate di medicinali, di razioni alimentari, di acqua potabile che ancora attendono di arrivare nelle mani dei bisognosi, improvvisamente guarda dentro di sé, nel cuore oscuro ma ancora palpitante del proprio dolore, nello sforzo inevitabile di riconciliazione fra la vita e la morte.D’accordo, il palazzo presidenziale, il Parlamento, la cattedrale, il quartier generale dell’Onu, l’ambasciata di Francia non esistono più, e così pure la prigione con i suoi seimila detenuti fuggiti nello slum di Cité Soleil, e le scuole, e la maggior parte degli ospedali, e basta attraversare le desolanti e sconfinate bidonville per rendersi conto che tutto è crollato, che la tv non c’è più, e nemmeno la corrente elettrica, e quando scende la notte il buio più impenetrabile avvolge la città e le sue anime dolenti e sembra che tutto l’universo – ad eccezione delle stelle, così lontane, imperturbabili – faccia il possibile per inghiottire nell’oblio questo disastro umano, civile, politico che è oggi Haiti.Ma esiste una struttura fine, una filigrana della vita – come della morte – che offre indizi preziosi. Partiamo da Petion Ville, l’altura segnata dal sisma dove si concentrava quella che con un po’ di fantasia potremmo chiamare la classe media haitiana. Su queste strade ripide, dal traffico perennemente congestionato, cogli un brulichio che giorni fa non c’era. Vedi il barbiere che ha riaperto la sua bottega, non puoi non notare un palazzetto azzurro a un solo piano, leggermente inclinato, appoggiato com’è a quello adiacente come un castello fatto di carte da gioco. Il barbiere ha già due clienti che attendono e anche se la corrente non c’è ancora, lavora di forbici e di rasoio. Accanto a lui, in un negozio miracolosamente risparmiato dal sisma, un meccanico comincia a riparare le automobili. La "gasolina", l’orrida miscela che ad Haiti adoperano per l’autotrazione, ha ripreso a circolare, se pure al quadruplo del prezzo di un tempo, e con essa il traffico. Sbarchiamo in rue Nationale, e su entrambi i lati dell’arteria che porta a Centre Ville si snoda quel mercato fatto di ogni genere di cose – dalla verdura che viene dalla campagna alla ferramenta, dagli abiti usati alle lampade da campeggio – che è la prova concreta del commercio al dettaglio che comincia a rifluire, come un sistema circolatorio che faticosamente si rimette in modo dopo un terribile choc. Il che non impedisce di scorgere tuttora, nonostante le decine di migliaia di cadaveri rimossi e per lo più destinati alle fosse comuni, sporadiche cataste di cadaveri che bruciano agli angoli di qualche via secondaria e mai battuta dai soccorsi e che riconosci non tanto dall’odore, ma per quel fumo grigio e giallo assieme – lo stesso dei lacrimogeni – che solo quel tipo di combustione riesce a produrre. Assiepati in decine di campi ricavati dagli spazi aperti dove c’è la certezza che nulla ti possa cadere sulla testa, cinquecentomila sfollati di Port-au-Prince ricostruiscono con gesti minimi una parvenza di intimità, chi rimodellando con delle lenzuola le pareti di una casa che non abiteranno più, chi fabbricandosi un tetto per ripararsi dal sole già violento e dalla pioggia, entrambi nefasti, il primo per come soffia sui possibili focolai epidemici, la seconda per come inquina la falda trasudando dalle migliaia di cadaveri interrati attorno alla città. I più fortunati hanno la promessa di una tenda, altri l’hanno già avuta dalle ong che con ben maggiore efficacia dell’elefantiaca messe di aiuti internazionali hanno cominciato fin dal primo giorno a tamponare dove potevano e come potevano le voragini umane, igieniche, sanitarie di un disastro che nessuna protezione civile al mondo avrebbe mai potuto governare.Lentamente ma inesorabilmente – punteggiata da quei caparbi ma profetici segnali come il continuo rinvenire corpi irragionevolmente ancora in vita a dieci giorni dal sisma – la città riprende a vivere, ora con scatti brutali e sanguigni come la violenza mai sopita degli slums o i saccheggi finiti nel sangue, ora con quel garbo misterioso che sembra essere la linfa segreta di un popolo abituato al dolore ma anche alla possibilità di rialzarsi e di superarlo. Magari – come ci è capitato di vedere non una, ma cento volte – regalando implacabilmente un «mercì» (retaggio di chissà quale straordinario galateo naturale) non solo a chi recava una tenda per la notte o una razione di pane e di banane, ma anche a chi ti stava amputando un braccio.È questa la Haiti che stiamo guardando negli occhi, oggi che tutti gli aiuti possibili stanno arrivando da ogni dove e che il dilemma è soltanto quello di organizzarli e gestirli. Ma ci attraversa imperioso – e non lo neghiamo – il sospetto che prima dell’Onu, della Banca Mondiale, delle grandi sigle che elargiscono finanziamenti e che forse – bontà loro – depenneranno qualche interesse sul debito, saranno come sempre le iniziative venute dal basso – non ultima la colletta organizzata oggi dalla Cei – a risultare le più efficaci, come lo sono state fin dal mattino successivo al sisma. Anzi, non vogliamo credere che sia un’utopia il pensare che saranno ancora gli haitiani ad arrivare primi in questa corsa immane verso la fine della notte.
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