mercoledì 12 gennaio 2011
Almeno 800mila sfollati vivono nelle tende: a Nord di Port-au-Prince di continuo spuntano nuove baraccopoli dove dilaga il colera che ha fatto quattromila vittime. Si sopravvive grazie al sostegno delle Ong che si difendono dalle critiche di ingerenza: «Salviamo vite, le autorità sono totalmente assenti».
- Auza: «Creare infrastrutture è il primo passo per ripartire»
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Roselein ha 26 anni e cinque figli da crescere con niente sotto una tenda sporca e stinta nel campo abusivo di Sessegesse, a Croix de Bouquets, periferia Nord di Port-au-Prince. Il suo compagno fa il sostituto manovale precario e guadagna a stento le “gourde”, i dollari locali, per mangiare. Le tende dei campi del centro e della periferia portano le insegne sbiadite delle organizzazioni di tutto il mondo. Sono piantate da un anno, a ricordare le molte cose rimaste immutate nella capitale haitiana. Nonostante la potente azione umanitaria delle Ong e i segni di speranza perfino nei posti più degradati, continua l’emergenza creata dalla catastrofe abbattutasi su Haiti alle 17 del 12 gennaio 2010, che ha ucciso in 35 secondi 250mila persone, il 2,5 per cento della popolazione, cancellando sei case sui 10. Secondo le stime ufficiali oggi un milione di haitiani vive in tenda, la metà circa sono bambini secondo l’Unicef. Come i figli di Roselein che  hanno dai due agli otto anni, e le vengono vicino. «Non abbiamo i soldi per mandarli a scuola». La retta costerebbe 20 dollari americani annui. «Siamo in sette in tenda da un anno, non ne possiamo più, vivevamo in una casa in affitto crollata, abbiamo perso tutto». «Ci hanno dato cibo solo le Ong – spiega Ezequiel, pittoresco presidente del campo Sessegesse –, poi i semi per piantare i legumi. Da quando c’è il colera hanno messo i bagni chimici e portano l’acqua. Il governo? Mai visto». In fondo Roselein ha una storia comune. La novità oggi sono i campi abusivi come Sessegesse, con 5mila persone in condizioni igieniche estreme e, da quando a ottobre è scoppiata l’epidemia che ha ucciso ufficialmente 4mila persone, tutti a forte rischio colera per mancanza di acqua e latrine. L’epidemia ha ucciso oltre 3.650 persone e – secondo quanto ha affermato ieri l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) – non ha ancora raggiunto il suo picco. In alcune zone rurali, si registrano ancora 100 casi al giorno.Molti, per salvarsi, cercano di raggiungere Port-au-Prince. Ma qui non c’è più posto. Anzi, migliaia di disperati stanno migrando migliaia di disperati verso Nord e nuove bidonville sorgono su terre occupate nella speranza di avere prima o poi un alloggio. In aree subito battezzate Corail e Canaan sono spuntate baraccopoli con almeno 200mila abitanti. Per entrare in centro si prende la route nazionale 1 e si scende nella bolgia. Una città fantasma, distrutta, ma sovraffollata. Le tende stanno ancora di fronte ai resti del Palazzo presidenziale e della cattedrale. Altri inquilini sono tornati negli edifici diroccati, in piedi per scommessa. Dai palazzi distrutti sbucano i bambini di strada, solo un terzo delle macerie è stato spostato. Come si sopravvive? Con i piccoli commerci, proseguiti anche tra le rovine e con i lavori a giornata dalle Ong per 5 dollari quotidiani. I fortunati fanno magliette per gli americani. Poi questo pezzo di Africa caraibica va avanti grazie ai due miliardi delle rimesse degli emigrati negli Usa, in Canada, in Francia, più di un  terzo del Pil haitiano. Dove sono finiti gli 11 miliardi di aiuti promessi in tre anni dagli Stati donatori lo scorso 31 marzo alla Commissione guidata da Bill Clinton – che oggi sarà ad Haiti per le cerimonie dell’anniversario – per la ricostruzione? Scandalosamente fermi mentre si litiga: gli haitiani denunciano di venire estromessi dalle scelte. Ad agosto, la Commissione ha dato il via libera a progetti per due miliardi per agricoltura, sanità e istruzione. Finora i governi ne hanno finanziati meno della metà. Entro giugno dovrebbero venire spesi 2,5 miliardi, ma non ci crede nessuno. Pesano la crisi politica e la debolezza istituzionale, con un presidente scaduto da un anno e accusato di incapacità e corruzione, René Preval. Sostenuto anche dalle gang degli slum, Preval lascerà solo dopo il ballottaggio per eleggere il successore. Ha appoggiato Celestin, che aveva passato il primo, contestatissimo turno del 28 novembre. Secondo indiscrezioni, la Commissione internazionale elettorale ha accolto i ricorsi per brogli e ha deciso che al secondo turno se la vedranno la professoressa Manigat e il cantante Martelly. Si dovrebbe votare a metà febbraio, i risultati non vengono annunciati per evitare disordini in questo anniversario. Tempo perso a litigare in una situazione estrema, il governo in questi mesi non ha presentato progetti per infrastrutture e abitazioni, che servono più del pane.«Siamo stufi – incalza padre Elan Florival, haitiano e parroco salesiano della Concezione nel mega ghetto di Cité Soleil, mezzo milione di anime – di questa politica e di dipendere da progetti decisi da organismi internazionali sulle nostre teste. Gli aiuti promessi non sono arrivati, la ricostruzione è ferma. Solo il mondo della solidarietà ha dato risultati concreti». Lui tempo non ne ha perso, con la Caritas italiana ha avviato la ricostruzione delle due scuole primarie di don Bosco a Cité Soleil e Bas Fontaine per dare a 500 bambini un’alternativa alla strada. L’attività delle Ong e delle congregazioni ha suscitato polemiche. A ottobre Edmond Mulet, direttore della missione Onu ad Haiti, Minustah, le ha accusate di essere responsabili della debolezza del Paese. «Abbiamo creato una repubblica delle Ong, ce ne sono circa 10mila e alcune di loro fanno un ottimo  lavoro. Ma di molte altre nessuno sa esattamente cosa facciano. Hanno creato strutture parallele nella sanità, nell’educazione e in campi che dovrebbero essere di dominio haitiano». Vero, così non si esce dall’emergenza, troppe sigle non sempre coordinate. Ma si salvano vite umane mentre le istituzioni pensano ad altro.«Senza la straordinaria generosità dei privati – si chiede padre Florval – quanti sarebbero morti di stenti e colera?» Con lo scoppio dell’epidemia portata da militari nepalesi, nell’occhio del ciclone è finita però la stessa Minustah, già impopolare, la cui opera di sicurezza costa un miliardo di dollari l’anno, l’86 per cento del quale per salari spesi non in loco, tranne gli svaghi nei resort. Ecco perché un anno dopo il centro è ancora una grande tendopoli brulicante di vita, perché nelle storiche e pericolose baraccopoli a Sud, Cité Soleil e Wharf Jeremie, la miseria è cresciuta e in comuni satellite come Carrefour ci si arrangia con un dollaro al giorno. Comunque, alla fine, meglio vivere nei campi per sfollati, più controllati, che  negli slums oppressi dalle gang, complice la polizia corrotta.Segni di speranza vengono invece dalla solidarietà che mette al centro la popolazione e punta sullo sviluppo. «A Wharf Jeremie il terremoto ha portato la rinascita», afferma suor Marcella Catozza, missionaria francescana che sta cambiando l’ex discarica di Haiti, concentrata su un fazzoletto di terra e lamiera. Ci è entrata nel 2005. Ufficialmente qui vivono 50mila persone, lei ha smesso di contare a 100mila e ha iniziato a curare i bambini.«La settimana scora ho visto morire un piccolo di due anni ustionato. L’ospedale non l’ha preso, troppo grave. L’ha rimandato a morire a Wharf tra le braccia della madre. Ad Haiti un bimbo su cinque non arriva a cinque anni». Ha progettato ascoltando i bisogni. C’è riuscita grazie all’attenzione suscitata dal sisma per Haiti. Con le Ong di Agire, la Caritas, congregazioni, fondazioni ed enti locali ha costruito un piccolo ospedale dove ora assiste i malati di colera e un centro pediatrico per debellare la malnutrizione. Presto finirà due scuole e un centro professionale.La nostra Protezione civile ha buttato macerie sulla discarica e sulla spianata suor Marcella ha costruito 122 casette in cemento, “village des italiens” dove le vie hanno nomi di frutti. Ora vuole sostituire tutte le baracche con le casette per dare un po’ di dignità a questa terra meravigliosa e dannata.
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