giovedì 1 aprile 2010
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«Com’è tutto ordinato qui…». Nasconde la stanchezza dietro un sorriso. È atterrata a Linate dopo quasi un giorno di viaggio. Ma questo è il meno. Per quasi tre mesi, Fiammetta Cappellini ha gestito, per l’Ong Avsi, l’emergenza post-terremoto a Port-au-Prince, città in cui vive da cinque anni. La giovane donna ha trasformato il suo giardino in base operativa dei soccorsi, ha organizzato la costruzione delle tendopoli nelle baraccopoli Martissant e Cité Soleil, ha avviato scuole e ospedali da campo. Un esempio di aiuto dal basso che sta funzionando: grazie alla Ong Avsi circa 15mila persone hanno acqua, cibo, tende, medicine e istruzione. Altre centinaia di migliaia – tra il 30 e il 50 per cento su milione di sfollati, stima la Cappellini – sono ancora, letteralmente, in mezzo alla strada. «Senza nemmeno un telo di plastica per ripararsi dalle piogge, che ormai sono arrivate», dice ad Avvenire Fiammetta, mentre rincorre con lo sguardo il figlio Alessandro: non vede il bimbo, di due anni, dalla fine di gennaio, quando ha deciso di rimpatriarlo «perché non vivesse l’orrore». Ora che il peggio è passato, dopo le vacanze di Pasqua, potrà riportarlo a «casa», ad Haiti. Anche se lì la catastrofe è tutt’altro che superata. «Siamo ancora in emergenza. Mi piacerebbe poter dire che è finita ma purtroppo, non è così», aggiunge. A Port-au-Prince manca tutto. «Negli accampamenti, vediamo morire neonati di dissenteria o denutrizione. Ma soprattutto non c’è un progetto di medio periodo perché chi è scampato al dramma possa ricostruirsi una situazione di vita accettabile», sostiene l’operatrice umanitaria, arrivata in Italia proprio mentre le grandi potenze, a New York, discutono quanto investire nella ricostruzione dell’isola. Dove, nel frattempo, si sopravvive alla giornata.Ancora, il governo non ha spiegato dove intenda riedificare le migliaia di edifici devastati. Subito dopo la tragedia, il presidente Preval aveva parlato di creare una nuova città fuori da Port-au-Prince. Non si era andati, però, oltre le parole. «La gente ha costruito accampamenti spontanei accanto alle macerie», racconta Fiammetta. Tanti hanno arrangiato dei teli sulle rovine delle proprie case: non vogliono allontanarsi per paura degli sciacalli. «La situazione rischia di cronicizzarsi. Temiamo che questi accampamenti diventino le nuove baraccopoli di Port-au-Prince. O, meglio, che tutta la capitale diventi una sterminata bidonville», dichiara. Già prima del terremoto la città era in avanzata decadenza. Ora, è uno scempio. «La gente cerca una prospettiva. Ma non ne vede», conclude Fiammetta. I bambini continuano a non poter andare a scuola. Classi e università sono chiuse almeno fino alla metà di aprile. La prospettiva di riaprirle appare remota. Ancora non è stato effettuato un sopralluogo per vedere quali edifici devono essere distrutti e quali riparati. Solo nelle «tende-aule» di Ong e associazioni umanitarie si fa lezione. Quella di Avsi, a Cité Soleil, raccoglie 200 alunni. Piccoli passi ma fondamentali per dare una speranza agli sfollati di Haiti. 
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