Il carcere militare di Guantanamo - Ansa
È un anniversario che non si sarebbe dovuto mai celebrare: invece la prigione militare di Guantanamo è ancora lì, a 23 anni da quell’11 gennaio 2002, simbolo del nadir statunitense in fatto di principi giuridici interni e di oblio del diritto bellico-umanitario, pessimamente applicati ai 780 presunti terroristi finiti nel tempo in quel “buco nero” di guarentigie. Tutti musulmani, alcuni minorenni, catturati nelle varie fasi della guerra globale al terrorismo: la “global war on terror“ dichiarata dall’allora presidente statunitense George W. Bush. Una formula retorica che nascose la reazione scomposta degli americani agli attentati qaedisti dell’11 settembre 2001, una data spartiacque per gravità e numero di morti, incipit al contempo di un ventennio di interventi militari reattivo-preventivi a guida statunitense. Erano gli anni delle operazioni di controinsurrezione, che segnarono una frattura fra esigenze operative e strategiche, trionfo le prime di armi hi-tech, dei principi di velocità, efficienza, sinergia interforze e decisionalità, in contrasto con la dimensione politica della controinsurrezione e dei fattori di successo in operazioni siffatte: conoscere le persone, l’avversario, le interazioni e le motivazioni. Uno iato che si è riflesso nelle sette strutture carcerarie di Camp Delta/Guantanamo, sull’isola caraibica, area fra le più povere di Cuba. Una miseria di vita che è sprofondata oltre il filo spinato della base, in quel carcere trasformatosi in un abisso di abusi, torture e promesse mancate, denunciati i primi da molte organizzazioni non governative, dalle Nazioni Unite e dal Parlamento Europeo.
Ci aveva provato già il Nobel per la pace, l’ex presidente statunitense Barack Obama, a chiudere Guantanamo. E nel 2009, alla conferenza di Monaco, era stato l’attuale presidente, Joe Biden, a dichiarare che si sarebbe dovuta finirla per sempre con quel vulnus. Sia l’uno che l’altro, durante i loro mandati, hanno ridotto la popolazione carceraria di Guantanamo, trasferendo all’estero molti detenuti: 11 prigionieri, yemeniti, sono stati spediti in Oman pochi giorni fa. Rimangono ancora in quindici a languire in quelle celle, ma il 20 gennaio è ormai alle porte, forse troppo vicino perché Biden riesca a mantenere la sua promessa. Quel carcere non redime né conquista i cuori e le menti degli aspiranti islamisti: già nel 2008, il Pentagono, ancora invischiato in Iraq, disse che almeno 13 ex detenuti di Guantanamo, liberati, avevano ripreso l’andazzo di un tempo: combattevano armi in pugno contro i marine. Uno di loro fu nel commando suicida responsabile di un triplice attentato a Mosul. Per l’intelligence statunitense gli ex di Guantanamo tornati al terrore erano molti di più, almeno il triplo di quelli stimati dal dipartimento della Difesa. Se aveva un senso rinchiuderli in celle di massima sicurezza, in quel contesto e in quella fase storica, Guantanamo, le prigioni più o meno segrete dell’Agenzia centrale di intelligence d’allora, i circa 200 prigionieri passati fino al 2006 nelle tremende carceri flottanti su navi, hanno segnato un punto di non ritorno, antitetico al dialogo fra civiltà, quasi suggello alle teorie geopolitiche di Samuel P. Huntington. Smentirà se stesso, il neo-inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, oppostosi nel primo mandato alla chiusura della prigione famigerata?