mercoledì 2 giugno 2010
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Dieci ore di discussioni, scambi di accuse, scontri verbali e certosina mediazione delle feluche della diplomazia. Tanto è servito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per «rammaricarsi per la perdita di vite umane», chiedere il «rilascio dei battelli e dei civili arrestati» e invocare «un’inchiesta immediata, imparziale, credibile e trasparente conforme agli standard internazionali». Il tutto in 24 righe vergate con un linguaggio ambiguo in alcuni passaggi sui quali turchi e statunitensi hanno incrociato i guantoni. Innanzitutto quella uscita dall’Onu ieri all’alba non è una risoluzione, bensì una meno vincolante e meno rigida «dichiarazione». Ankara e Washington hanno discusso soprattutto su due passaggi. Il primo riguarda l’uso del plurale o singolare in riferimento agli «atti che hanno provocato la morte di 10 civili». La Turchia ha spinto perché si parlasse di “atto”, gli Stati Uniti si sono irrigiditi ottenendo l’uso del plurale (acts) così da attribuire la responsabilità di quanto accaduto a entrambe le parti, commandos israeliano e attivisti pacifisti del Mavi Marmara. Altra “querelle” sulle caratteristiche dell’inchiesta. Washington si è opposta all’utilizzo della parola «indipendente» preferendo «imparziale». Anche qui il timore era che Israele potesse essere esclusa dal processo investigativo. Il vice ambasciatore Usa all’Onu Alejandro Wolff ha detto: «Siamo fiduciosi che Israele condurrà un credibile, imparziale, trasparente e immediata inchiesta interna». Ma il messicano Claude Heller, presidente di turno del Consiglio di sicurezza, ha detto che «imparziale» significa «indipendente» e che spetterà all’Onu decidere chi indagherà e chi farà parte della commissione inquirente. Interpretazioni agli antipodi. Comunque né uscita una dichiarazione diluita rispetto a quanto aveva chiesto Ankara, ovvero denuncia di violazione della legge internazionale, inchiesta dell’Onu, persecuzione dei responsabili del raid e risarcimento per le vittime. Nulla di questo è stato accolto, se non parzialmente. Gli sherpa della diplomazia hanno lavorato tutta notte per trovare un accordo che trovasse tutti soddisfatti. E rinunciare alla risoluzione per sposare la meno impegnativa dichiarazione è stato il primo passo. È invece contenuto nella dichiarazione la richiesta di sospendere il blocco degli aiuti nella Striscia di Gaza.Malgrado Washington sia riuscita ad attutire il colpo sferrato dalla Turchia (e dal Libano) contro Israele, quest’ultima ha definito «ipocrita» e «inaccettabile», la condanna del Consiglio di sicurezza. Per il portavoce del ministro degli Esteri «è stata precipitosa e non ha lasciato un tempo di riflessione per considerare tutti i fatti». Il premier Netanyahu ha aggiunto che la condanna internazionale «non fermerà l’assedio navale di Israele alla Striscia di Gaza». La seduta è stata molto accesa. Il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu ha ribadito i termini con cui lunedì si era già espresso il premier Erdogan: «È omicidio condotto da uno Stato». Ma le posizioni con Washington proprio su questo restano divergenti. Wolff ha criticato il tentativo della flottiglia di rompere il blocco. Se le relazioni diplomatiche fra Israele e Turchia sono danneggiate in maniera grave, Washington si trova nella non facile situazione di dover gestire i propri rapporti con i due Paesi amici. Namik Tan, ambasciatore turco negli Usa, è stato lapidario prima dell’avvio della seduta del Consiglio di sicurezza: «Ci aspetteremmo che i nostri amici americani fossero duri nel condannare l’azione di Israele. Finora non lo abbiamo sentito». E infatti la diplomazia Usa resta ferma sulle sue posizioni: vuole tutti i fatti. Lo ha ribadito Hillary Clinton, che ieri ha ottenuto «i primi dettagli» dal ministro della Difesa Ehud Barak. Il segretario di Stato ha difeso la risposta prudente degli Usa al blitz sulla Mavi Marmara facendo appello a «reazioni attente, ponderate» all’incidente. E ha detto che l’inchiesta di Gerusalemme «deve essere credibile». Il Dipartimento di Stato in ha anche spiegato che devono essere lasciati entrare gli aiuti umanitari a Gaza.
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