lunedì 3 ottobre 2011
Legale chiede di riaprire il caso del 14enne nero ucciso senza prove. Nell’allora South Carolina segregazionista, un afroamericano era il colpevole ideale: sparita la trascrizione del dibattimento e la testimonianza del giovane. Ora tutto è nelle mani del procuratore.
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George Junius Stinney Jr. è stato messo a morte il 16 giugno del 1944 in South Carolina per aver ucciso due bambine: aveva 14 anni. Ma ora l’avvocato americano Steve McKenzie intende provarne l’innocenza e ha chiesto al procuratore generale dello Stato di riaprire il caso. Una questione destinata a riportare alla ribalta sulla polemica, mai sopita, della pena di morte in America. Anche perché non c’è alcuna documentazione scritta della colpevolezza del ragazzo. “Baby George”, il più giovane condannato a finire davanti al boia in America – così piccolo che fu necessario farlo sedere su voluminosi libri così che arrivasse agli elettrodi della sedia elettrica – avrebbe avuto solo la sfortuna di essere nero ad Alcolu, una cittadina segregazionista del Sud degli Stati Uniti e di aver partecipato alla ricerca di due bambine bianche scomparse. Betty June Binnicker, di undici anni, e Mary Emma Thames, di otto, erano uscite in bicicletta una mattina per cogliere fiori e non erano più tornate a casa. Furono successivamente trovate uccise, trafitte da uno spuntone di metallo utilizzato negli scambi ferroviari. Poiché George Stinney aveva accennato di averle viste prima della scomparsa, venne arrestato e accusato di omicidio. Nonostante la mancanza di prove che lo legassero al crimine – a parte il fatto che erano di solito i binari ferroviari a segnare la linea di demarcazione per le zone “nere” della città – venne portato davanti al giudice un mese più tardi. «Stinney era un obiettivo conveniente – ha rimarcato il legale del South Carolina – fu un facile “capro espiatorio” per la polizia che voleva trovare velocemente e a tutti i costi un colpevole». Bastò infatti un giorno di processo – in cui la difesa, attribuita d’ufficio, non si sognò nemmeno di mettere in dubbio le parole delle autorità, né chiamò alcun testimone alla sbarra – e dieci minuti di decisione in camera di consiglio, perché lo condannassero a morte. A sancire la sua colpevolezza, una confessione estorta con le minacce – e con la promessa di un cono gelato – raccontata successivamente dallo sceriffo, ma di cui non c’è alcuna documentazione scritta, così come manca la trascrizione dell’intero processo. «Fu una confessione orale, raccolta da due poliziotti bianchi e riferita a una giuria di soli uomini bianchi», ha spiegato l’avvocato McKenzie, certo che la completa mancanza di prove finirà con lo scagionare Stinney, anche se solo 67 anni dopo la sua esecuzione. Prima che si possa ammettere il terribile e tragico errore giudiziario, spetterà al procuratore generale Ernest “Chip” Finney esaminare la questione e decidere, probabilmente entro fine anno, se riaprire il caso. Anche McKenzie, però, ha dovuto prendere atto che – pur trattandosi forse del più clamoroso esempio delle ingiustizie legali sofferte dalla comunità afroamericana durante la prima metà del secolo scorso – si presenta come un processo difficile.
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