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Bimbo in attesa di presentare richiesta d'asilo a Ciudad Juarez lungo il confine con gli Usa - Reuters
La battaglia sul 14esimo emendamento – e, per esteso, sul giro di vite migratorio – è cominciata a Seattle. E proprio nel giorno in cui Donald Trump ha avviato la «deportazione di massa» con 460 arresti di migranti nelle ultime 33 ore in varie città degli States. A fare da apripista, il giudice John Coughenour che ha accolto il ricorso presentato da Arizona, Oregon, Washington e Illinois e bloccato temporaneamente l’ordine esecutivo sullo “ius soli” con cui il presidente vuole escludere dalla nazionalità per nascita, prevista dall’ordinamento statunitense, i figli di irregolari e anche quelli di madre con permesso temporaneo e padre “indocumentado”. Una misura «palesemente incostituzionale», ha spiegato il magistrato federale. Emanato nel 1868, al termine della Guerra civile, per dare piena cittadinanza agli ex schiavi, il provvedimento è parte integrante della Carta fondamentale. La sua modifica richiede, dunque, un lungo processo e la maggioranza assoluta alla Camera, oltre alla ratifica di tre quarti degli Stati. Donald Trump, sulla questione, non ha né tempo né i numeri nonostante l’intento di 36 deputati repubblicani di presentare un progetto ad hoc al Congresso. Per questo punta al cambiamento per “via giudiziale”. Nell’ordinare alle agenzie federali, a partire dal 20 febbraio, di negare i documenti ai bimbi nati da «chi non ha diritto di stare in America», il capo della Casa Bianca sapeva di scatenare una sfilza di cause da parte dei governatori democratici e delle associazioni per i diritti civili. L’obiettivo è che, sentenza dopo sentenza, il caso arrivi alla Corte Suprema la quale, nel passato recente, ha ribaltato interpretazioni consuete, dall’aborto all’immunità presidenziale. Del resto, la stessa definizione “estesa” dello ius soli è maturata in tribunale, in seguito al famoso caso Wong Kim Ark e del verdetto che, nel 1898, riconobbe la cittadinanza a un cuoco 21enne, figlio di immigrati cinesi, per i quali c’era il divieto di naturalizzazione. Da 157 anni, la nazionalità automatica è uno dei cardini del sistema che ha trasformato milioni di figli di immigrati in “true americans”, veri americani. Il che non significa che non ci siano state resistenze. Le statunitensi sposate con stranieri, i nativi, gli abitanti di Porto Rico, Guam e delle Isole Vergini hanno dovuto lottare nel Novecento per venire incluse nel 14esimo emendamento. Rispetto al secolo scorso, negli ultimi quarant’anni, le voci contrarie allo ius soli automatiche si sono fatte più forti. È stata, però, la recente politicizzazione della questione migratoria a catapultare quella che fino ad allora era stata una disputa accademica nel dibattito pubblico. L’opposizione agli “anchor babies” – i “bambini ancora” perché, secondo certa narrativa, utilizzati dagli illegali per restare negliUsa – è diventato uno dei cavalli di battaglia dell’ultra-destra. Il Texas, nel 2013, ha addirittura sospeso per tre anni la concessione di certificati di nascita ai figli di irregolari. Il Trump bis – convinto che estensione universale del 14esimo emendamento sia una palese forzatura – punta al salto di qualità a livello federale. Nel frattempo, dal mese prossimo, i neonati non-cittadini – circa 150mila piccoli all’anno – saranno comunque privati di carta di identità, passaporto e tessera della previdenza sociale e, dunque, non avranno accesso a servizi essenziali. Non nei quattro Stati pionieri, almeno per il momento.