mercoledì 24 ottobre 2018
In dodici atenei è ormai possibile «cambiare identità» per sfuggire a comportamenti anomali o razzisti da parte anche di docenti preconcetti. Il nuovo diritto rappresenta davvero un progresso civile?
Contro le discriminazioni l'università sdogana i «nomi d'uso»
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Nomi e parole come strumenti per cercare di combattere le discriminazioni, oltre che come bersagli delle stesse discriminazioni. In Francia, il principio dell’antidoto prodotto partendo dalla raccolta di veleno pare ispirare adesso pure la lotta ai razzismi. È quanto si osserva in particolare nelle università, dove si diffonde il principio del diritto a un «nome d’uso»’ per quegli studenti che considerano il proprio nome all’anagrafe come un ostacolo per proseguire gli studi. Il "nome d’uso" è destinato a comparire sui documenti studenteschi e in generale nei rapporti con gli insegnanti e l’ateneo.
L’ultima adozione riguarda l’Univesità di Lione 2, nella scia di altri 11 atenei. In genere, i criteri richiesti dalle università per l’accesso al nuovo diritto sono volontariamente vaghi, per lasciare la porta aperta a tutte le forme giustificate di disagio. Ma in molti casi, i responsabili d’ateneo dichiarano di essere stati spinti a promuovere la misura, in primo luogo, dopo richieste legate a «disturbi dell’identità di genere».
Se è ancora troppo presto per un bilancio, resta intanto aperto il dibattito sull’efficacia effettiva della misura.
In altri termini, il nuovo diritto rappresenta davvero un progresso civile, o si tratta invece di una soluzione di ripiego fondata su un certo occultamento? Per certi aspetti, la misura affronta le problematiche di discriminazione negli atenei francesi rese popolari anche dal film “Quasi nemici”, di Yvan Attal, appena uscito in Italia.
Anche lasciando la sfera dei nomi propri all’anagrafe e riferendosi più in generale all’uso della lingua scritta e parlata, la scoperta di forme più o meno sottili di discriminazione non è un’eccezione in una società elitistica come quella francese (al di là di certi proclami politici di facciata in chiave egualitaristica). In proposito, la parola «glottophobie» è stata coniata dal sociolinguista Philippe Blanchet per qualificare la discriminazione verso chi usa accenti regionali o altre varianti linguistiche e paralinguistiche non standard.
Il problema è appena salito sulla ribalta della cronaca anche per via di una sfuriata del controverso «tribuno rosso» Jean-Luc Mélenchon, già nei guai giudiziari per le pratiche finanziarie opache del suo partito (La France insoumise), ma capace pure, la settimana scorsa, di mettere alla berlina una giornalista con un accento pronunciato del Midi. Nei corridoi dell’Assemblea Nazionale, interrogato da una cronista della televisione pubblica, il deputato della sinistra radicale l’ha pubblicamente canzonata, persino scimmiottando il suo accento meridionale.
Denunciando un’«umiliazione gratuita»
, il Sindacato nazionale dei giornalisti ha «condannato fermamente» la condotta di Mélenchon. Ma l’indomani, la reazione più vigorosa è giunta dai banchi della stessa Assemblea Nazionale. Una deputata macroniana, Laetitia Avia, ha colto la palla al balzo per proporre ai colleghi di scrivere una bozza di legge contro la «glottofobia».
Potrebbe così apparire un 25mo criterio di discriminazione riconosciuto dal codice penale transalpino, accanto ad esempio a origine etnica, religione, sesso, handicap. Ma per il momento, l’idea non si è tradotta in una bozza di legge vera e propria.

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