domenica 30 gennaio 2011
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La colonna di carri armati avanza lentamente sulla Corniche, l’ampio viale che corre lungo il Nilo, in mezzo ad una folla che scandisce slogan contro il rais ma saluta con gesti amichevoli i militari che dall’alto delle torrette guardano con aria stupita i volti dei loro coetanei assiepati attorno ai blindati. Un gruppo di dimostranti vi sale sopra senza incontrare la minima resistenza, trasformando la ferraglia repressiva in una tribuna di libertà accompagnata dalle dita a V in segno di vittoria. Era successo lo stesso a Mosca nel ’91, quando cadde il regime sovietico, e chissà se al presidente Mubarak, vecchio ufficiale dell’aeronautica cresciuto col mito dell’Armata Rossa, la scena apparirà come un brutto presagio. Le sue parole, rivolte alla nazione l’altra notte, sono cadute nel vuoto. Quel suo «rimango al mio posto per proteggere l’Egitto» ha il sapore della beffa che ridà fiato alla protesta. E anche i suoi ordini vengono platealmente disattesi. Migliaia di dimostranti hanno sfidato il coprifuoco imposto dalle 4 di ieri pomeriggio fino alle 8 di domenica mattina e hanno riempito le strade e le piazze del centro città fino a tarda sera, nonostante la minaccia che l’esercito avrebbe usato la mano pesante contro ogni violazione. L’avvertimento viene ripetuto dalla tv di Stato ma per ora i militari, a differenze delle forze di polizia, si sono ben guardati dall’intervenire. Al quinto giorno della protesta popolare la tensione resta altissima in tutto il Paese, la mobilitazione non si ferma e c’è il timore di un’escalation di violenza. Nella capitale migliaia di persone hanno cercato di assaltare la sede del ministero dell’Interno ma sono stati respinti dalle forze di polizia che hanno sparato ad altezza d’uomo facendo tre vittime. Un altro dimostrante – secondo la tv al-Jazeera sarebbe stato sparato da un cecchino, nascosto sul tetto dell’edificio. E anche ad Alessandria si sono registrati duri scontri tra agenti e manifestanti. Qui ci sono stati 31 morti. Nella capitale sarebbero un centinaio, secondo al-Jazeera, mentre la tv governativa parla di 38 morti, di cui 10 poliziotti. All’ospedale del Cairo sono ricoverati decine di feriti per arma da fuoco. Quel che è certo è che l’aspra battaglia di venerdì, al culmine delle giornate della collera, si è conclusa con la riconquista popolare della piazza Tahrir, subito ribattezzata «25 gennaio» (data d’inizio delle proteste). Le vie d’accesso sono presidiate dai carri armati dell’esercito che impediscono il passaggio alle auto ma non ai cortei sempre più numerosi dei dimostranti. «Mubarak vattene con tutta la tua famiglia!» è il ritornello che echeggia continuamente nel centro città. Qualcuno l’ha scritto col pennarello verde perfino sulla lamiera di un blindato, mentre attorno uomini barbuti tengono un comizio urlando la loro rabbia dentro un megafono. Alla nostra esplicita domanda negano di far parte dei «Fratelli Musulmani», l’organizzazione integralista messa fuori legge ma molto radicata nella società egiziana. «Qui c’è solo il popolo unito nel chiedere la fine del regime», spiegano. Ma dietro la protesta che diventa sempre più violenta e aggressiva non è difficile intravedere la regia del principale movimento d’opposizione di matrice religiosa. E sono in molti a prevedere che nei prossimi giorni il suo ruolo crescerà, e potrebbe diventare determinante nel vuoto di potere che si è creato. Anche uno dei predicatori più noti, l’imam Yussef El Qaradawi, che tiene i suoi sermoni regolarmente su al-Jazeera, ha chiesto ieri che «l’ultra-ottantenne Mubarak se ne vada», aggiungendo benzina al fuoco della ribellione. Brucia l’Egitto, e non è un modo di dire. I luoghi simbolo del potere sono rimasti avvolti per tutto il giorno dalle fiamme che i pompieri, a quanto sembra, non si sono presi cura di spegnere. La sede del Partito nazionale democratico guidato da Mubarak è un cubo annerito con le finestre bruciacchiate che cadono a pezzi e vengono agitate come trofei dai ragazzini. Il fuoco ha inghiottito anche gli uffici del principale commissariato di polizia, sulla via Ramsis, mentre un vasto incendio ha semi-distrutto il famigerato tribunale di Al-Gahal, noto per aver processato molti militanti del movimento giovanile «6 aprile», uno degli animatori della rivolta di questi giorni. «Libertà per i prigionieri politici» sta scritto su un grande manifesto che fronteggia quel che resta del palazzo di giustizia. La libertà se la sono già presa alcuni detenuti che sarebbero riusciti a fuggire dalle celle di sicurezza approfittando del caos che regnava l’altra notte in città. Sarebbero loro gli autori dei saccheggi nei centri commerciali e nei negozi del centro, mentre 8 detenuti sarebbero stati uccisi dalle guardie carcerarie durante la rivolta. Molta impressione ha suscitato il tentato assalto al Museo Egizio dove sono state danneggiate due mummie di faraoni. Quelle, s’intende, di tremila anni fa, mentre il moderno Faraone (come viene chiamato Mubarak) traballa ma per ora non cade. Ma è l’Egitto che rischia d’andare fuori controllo. Ieri le banche sono rimaste chiuse, la Borsa del Cairo ha perso oltre 10 punti in un giorno e oggi, domenica, non riaprirà. In università gli esami sono stati rinviati e molte scuole hanno decretato vacanze forzate. L’unica buona notizia è che i telefoni cellulari sono tornati a funzionare ma resta bloccato l’accesso a Internet e ai social network, l’anima tecnologica della nuova Intifada che s’allarga dalla Tunisia allo Yemen. Ma è in Egitto, cuore del mondo arabo, che si gioca la partita decisiva. Il braccio di ferro tra il vecchio rais e il suo popolo continua.
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