sabato 30 marzo 2024
Reem Hajrajreh, cresciuta in un campo profughi, ha creato Women of the sun per salvare i giovani palestinesi dalla violenza. «Tocca a noi mamme cambiare le cose perciò lavoriamo con le madri ebree»
La marcia delle donne di Women of the sun e Women wage peace a Midbar sul Mar Morto

La marcia delle donne di Women of the sun e Women wage peace a Midbar sul Mar Morto - Women of the sun

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Appena varcata la soglia dell’ufficio in cima a un condominio anonimo di Betlemme, il profumo di vaniglia inonda le narici, inebriando l’olfatto. «È il premio per le quattro rampe di scale senza ascensore», scherzano Yasmine e Marwa mentre accolgono i visitatori. La luce intensa, che irrompe dai quattro finestroni, dilata lo spazio della stanza, facendola apparire enorme. «Scusate il disordine, ci siamo trasferite qui da un mese», aggiunge Marwa. In realtà, non c’è una cosa fuori posto. L’arredamento è semplice ma curato nei dettagli. Alle pareti ci sono disegni ad acquarello di fiori – «molti li ho fatti io, mi piace dipingere», dice Yasmine, quasi con imbarazzo – e ceramiche decorate. Qua e là, è raffigurato il “asfur al-shams” o “palestinian sundbird”, letteralmente “l’uccello del sole della Palestina”, meglio noto in Italia come nettarinia della Palestina, una sorta di passero dalle piume di colori sgargianti e il becco a punta che l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha adottato dal 2015 come simbolo nazionale. È anche l’emblema di Women of the sun, le “Donne del sole”. «Perché è come noi. Sembra fragile, ma resiste a tutto. E continua a cantare e a volare», afferma Reem Hajajreh presidente di quest’alleanza di migliaia di giovani, adulte, anziane che in Cisgiordania e a Gaza si batte per portare un raggio di luce nel buio della violenza dell’occupazione, del radicalismo della guerra. Per questo è neo-candidata al Nobel per la Pace. «Devono essere le donne a farlo, uscendo loro stesse dall’ombra dove troppo a lungo sono state confinate. Per 75 anni, gli uomini ci hanno imposto scelte che non hanno portato a nulla. È tempo di cambiare». Un percorso che la stessa Reem ha fatto in prima persona.


Economista di formazione, con una laurea all’Università di al-Quds, è cresciuta nel campo profughi di Dheishesh, la cui entrata si apre lungo la strada principale di Betlemme. Un universo parallelo a meno di dieci minuti d’auto dalla sede di Women of the sun. Il cielo fatica ad insinuarsi nella foresta di edifici – “dheishesh” vuol dire proprio foresta – arrampicati gli uni sugli altri, in una corsa di cemento e mattoni per conquistare la poca aria disponibile. Creato dall’Onu nel 1949 per ospitare 3mila sfollati di 45 villaggi intorno a Gerusalemme Ovest ed Hebron, ora ne conta quasi 19mila ammassati in una superficie di 0,33 chilometri quadrati. Uno dei campi più popolati nella fascia sud dei Territori. Le strade sono larghe quanto la carrozzeria di una sola vettura. Quando se ne incrocia una proveniente dal senso opposto, si assiste a una contrattazione a gesti per capire chi riesce a indietreggiare in modo da far passare l’altro.

I muri sono ricoperti dai volti di Arafat e dei tanti uccisi negli scontri con le forze di sicurezza israeliane accanto alle sagome della kefiah e della bandiera palestinese. Qui, a differenza di altre zone della Cisgiordania, Fatah è ancora forte anche se le frange più estremiste cercano di avanzare. «Non è facile vivere a Dheishesh. La prossimità è soffocante. Per andare avanti, la gente si nutre del sogno di poter tornare dalle comunità da cui è stata espulsa dopo la fondazione di Israele. Più passa il tempo senza soluzioni, più la rabbia cresce e le posizioni si radicalizzano – spiega Reem –. Bambini e adolescenti, soprattutto, si sentono in cattività. Non hanno spazi verdi o comuni in cui aggregarsi. Le continue incursioni dei soldati di Tel Aviv contribuiscono a tenere alta la tensione. Per tanti ragazzini sono gli unici israeliani che hanno visto. Ovvio che li guardino con rancore. Molti, così, finiscono per unirsi ai gruppi estremisti e finiscono arrestati o uccisi».

Proprio dalla sua ansia di madre di salvare i figli, nasce la riflessione che ha portato Reem a fondare Women of the sun. «È accaduto nel 2018. Il mio Wasim aveva 13 anni. Un suo caro amico è stato ucciso in uno scontro e questo lo ha molto colpito. Ha attraversato un periodo di depressione. Ero molto preoccupata. Mi sono detta: non voglio che anche lui sia assassinato né voglio seppellire altri figli di vicini e di amici. I nostri ragazzi meritano di vivere. L’unico modo per salvarli è cambiare la situazione. E tocca a noi donne e madri compiere il primo passo e convincere altre donne e madri. Queste ultime sono il perno della famiglia, sono loro a educare i bimbi e i giovani. Sono, dunque, il motore della trasformazione». Reem ha cominciato a percorrere la comunità casa per casa, instaurando conversazioni da donna a donna. «Non è stato facile. La vita pubblica è ancora ritenuta “roba da uomini”. Troppo a lungo siamo state abituate a stare in silenzio, l’idea di prendere la parola spaventa». Pian piano, però, le resistenze sono cadute. Durante la pandemia sono iniziati gli incontri virtuali, poi, nel 2022, la registrazione ufficiale. Ora di “Women of the sun” fanno parte 2.500 donne e in Cisgiordania e alcuni uomini, tra cui Wasim e suo fratello Abdallah. «È giusto che ci siano anche maschi, basta solo che non vogliano controllarci», scherza Reem.

Altre 300 attiviste sono di Gaza. «Ormai 268, togliendo quante sono morte dall’inizio del conflitto. Dal 7 ottobre abbiamo perso 33 compagne: 32 a Gaza e Vivian Silver in Israele: è stata uccisa nell’attacco al kibbutz Be’eri il 7 ottobre. Anche Vivian era una di noi». La nota attivista israelo-canadese di 74 anni assassinata da Hamas aveva co-fondato nel 2014, insieme a Yael Admi, Women wage peace, organizzazione di israeliane impegnate nella costruzione della pace. La collaborazione con Women of the sun, fin dalla nascita di quest’ultima, è stata naturale. «Il 25 marzo 2022, insieme, 500 donne per ogni organizzazione, abbiamo lanciato “l’appello delle mamme”», dice mentre prende uno dei volantini di cartone in cui è stampato il testo, in arabo, ebraico e inglese e legge le prime righe: «Noi, donne israeliane e palestinesi, appartenenti a gruppi sociali diversi, siamo unite dall’aspirazione umana a un futuro di pace, libertà, uguaglianza, diritti e sicurezza per i nostri figli e le prossime generazioni. Noi crediamo che la maggioranza dei popoli delle nostre nazioni condivida le stesse aspirazioni». Reem non nasconde la difficoltà di far capire alle palestinesi l’importanza della partnership con le israeliane.

«Quando si parla di pace, si rischia di essere accusati di far parte della “tatbya”, la normalizzazione dello status quo e dell’occupazione. Per rassicurare molte, procediamo per gradi. Se preferiscono, possono lavorare solo con Women of the sun per far crescere la coscienza politica delle donne, aiutarle a rendersi indipendenti economicamente e, allo stesso tempo, iniziare una formazione sul dialogo e la nonviolenza Nel mentre noi, non loro direttamente, collaboriamo con Women wage peace. Saranno, poi, loro a scegliere, man mano che vanno avanti nella sensibilizzazione, se cooperare con le israeliane. In questo modo, siamo un ponte». Women of the sun e Women wage peace hanno rinnovato la propria “chiamata” appena tre giorni prima del 7 ottobre con una doppia manifestazione a Gerusalemme e Gerico. «Quel giorno, al check-point, i soldati non volevano farci passare nonostante avessimo i permessi. Ricordo di avere chiamato Vivian che subito si è precipitata per cercare di aiutarci. Quando, alla fine, siamo riuscite ad arrivare, mi ha stretto la mano con calore e mi ha detto: “Mi dispiace. Mi dispiace davvero. Ma non smettere di insegnare ai tuoi figli che siamo esseri umani come voi”. È l’ultimo ricordo che ho di lei». Reem sta seguendo l'indicazione di Vivian.

«La tragedia del 7 ottobre è stata un test di tenuta della nostra partnership con Women wage peace. E l’abbiamo superato. Siamo ancora insieme». Insieme Reim e Yael Admi sono state incluse nella lista della rivista Time delle 12 donne maggiormente impegnate nella trasformazione in senso inclusivo della società. E insieme sono state candidate al Nobel per la Pace 2024. «La pace è possibile, forse più di prima. Quanto accaduto dopo il 7 ottobre dimostra che la guerra non porta a niente. È inutile oltre che sbagliata. Tanti e tante se ne stanno rendendo conto, finalmente».

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